di Fiona Diwan
Da
IC7 – Il commento di Fiona Diwan
Come Israele è riuscita a produrre un surplus di acqua dolce per combattere la peggior siccità degli ultimi 900 anni e a proporla ai Paesi Arabi confinanti (risorsa e deterrente dei conflitti interni, dalla Siria alla Giordania, dall’Arabia Saudita al Libano).
A volte si vince, a volte s’impara. Specie se di mezzo c’è la natura e le sue calamità. Fino ad oggi, quasi nessun giornale italiano ne aveva parlato. Si tratta del recente e nuovo surplus d’acqua dolce di Israele e della possibilità di condividere il prezioso oro blu con i vicini arabi. Una quantità d’acqua dolce che supera il fabbisogno idrico dell’intero Paese, considerato, fino a ieri tra i più aridi e che potrebbe rivoluzionare tutti gli assetti e le alleanze in quell’area. Ma per capire come è andata bisogna fare un passo indietro.
Pochissimi infatti sanno che il vero Annus terribilis della storia recente del Medioriente e dei suoi attuali conflitti è stato il 2007, anno in cui la peggiore siccità degli ultimi 900 anni si abbatte su quelle terre. In meno di un anno tutto diventa desolazione e sete. Il paesaggio agricolo di Siria, Libano, Iraq, Israele inizia a diventare apocalittico, sabbia, aridità, raccolti bruciati, mai una pioggia, piantagioni rinsecchite, lande e villaggi assetati, niente cibo. Era ieri, ed è ancora oggi. Iniziò così quello stravolgimento demografico, sociologico, agricolo che porterà masse di contadini arabi, curdi, yazidi, circassi, nelle grandi città, profughi in patria in viaggio verso Aleppo, Damasco, Homs… E’ stata questa siccità e soprattutto l’incapacità dei governi di trovare soluzioni e risposte al bisogno d’acqua, uno dei detonatori-catalizzatori di quel conflitto siriano, scoppiato nel 2011, di cui oggi abbiamo sotto gli occhi le devastanti conseguenze umane (non è certo questa l’unica origine delle guerre in Siria o Iraq, ma forse una concausa tra le più rilevanti del conflitto in corso). Basta dare un occhio al sito scientifico legato alle Università americane www.ensia.com e all’illuminante analisi ripresa da tutti i media Usa (How a new source of water is helping reduce conflict in the Middle East), per farsi un’idea e capire quanto la siccità che imperversa da una decade e il problema dell’acqua siano in realtà una delle motivazioni più clamorose e sottovalutate degli attuali conflitti nell’area, mancanza idrica i cui effetti, a cascata, hanno provocato disperazione, migrazioni, spostamenti, micro-esodi, epidemie, “armi, acciaio e malattie”, – come direbbe lo storico-antropologo Jared Diamond -, dentro cui Isis, ribelli, miliziani, eserciti pescano a piene mani e le cui conseguenze sono sotto i nostri occhi, su barconi, coste italiane, greche e confini macedoni, in un’arida desolazione generale che ancora non vede, a distanza di otto anni, nessuna soluzione e non una goccia d’acqua.
Ma c’è dell’altro, una storia parallela. Nel 2007, la stessa devastante siccità colpisce ovviamente anche Israele. A fine 2008 il Paese si ritrova sull’orlo della catastrofe idrica. Vengono imposti razionatori d’acqua nelle docce delle case, nei rubinetti e nei water. Ai contadini israeliani e nei kibbutzim l’acqua viene contingentata. Senza contare che il periodico tormentone nazionale sembra diventato un mantra quotidiano: ovvero il livello del Kinneret, il lago di Tiberiade, vero e sempiterno parametro per stabilire la quantità di risorse idriche che il Paese avrebbe a disposizione quell’anno (di solito, quando il lago di Tiberiade esonda, tutto Israele, ancora oggi, balla e brinda, rassicurato dal fatto che le risorse d’acqua per i raccolti e le città basteranno).
Ma nel 2007 e per gli anni a venire, nessuno ballò né brindò: anche in Israele ci si rese presto conto che una nuova “piaga d’Egitto” si era abbattuta sulla regione, ovvero la più drammatica siccità da quasi un millennio. La “black line” del Kinneret, la linea nera del lago di Tiberiade, era stata superata imponendo drastiche restrizioni d’acqua ad abitanti e contadini di Israele. Nella Mezzaluna fertile e in Siria la situazione era ancor più drammatica, si scavavano pozzi fino a 500 metri per recuperare acqua. L’intera agricoltura collassò e infine il colpo di grazia di un’epica tempesta di sabbia scatenò l’esodo massiccio verso le città. La mancanza d’acqua stava conducendo l’intera regione alla disperazione: nel 2010, masse umane andarono a ingrossare le periferie degradate e sovraffollate delle città, disperati senza lavoro, senza cibo né cure. La guerra in Siria sarebbe scoppiata nel 2011. Una generazione perduta, il collasso generale. Il resto è noto, è il qui e ora sotto i nostri occhi. Basterebbe dare uno sguardo al Rapporto del 2015 Climate Change in the Fertile Crescent and Implications in the Recent Syrian Dought, per comprendere l’entità della cosa.
Fu così che qualcuno iniziò a ingegnarsi per combattere il “water stress”. Anche in questo caso, la chiave si dimostrò essere la tecnologia, con una nuova generazione di impianti di de-salinizzazione dell’acqua che, ad oggi, è in grado di dare da bere non solo a tutta Israele ma anche ai paesi limitrofi. Il tutto grazie all’abbattimento degli immani costi di desalinizzazione e grazie all’invenzione di un recente, nuovo filtro in poroso materiale lavico (progettato dallo Zuckerberg Institute for Water Research, nel Negev), che consente di catturare quei microorganismi e batteri contenuti nell’acqua di mare, prima che l’acqua stessa giunga alle membrane del secondo filtro desalinizzante. Era infatti il costo di questi filtri, nonché il loro rapido deterioramento a causa dell’attacco dei batteri, a ostacolare in primis la produzione di acqua desalinizzata.
A 15 chilometri a sud di Tel Aviv, grande come un campo da calcio, oggi sorge Sorek, il piu grande impianto di desalinizzazione al mondo che (insieme a quelli di Ashkelon e Hedera) pompa milioni di metri cubi d’acqua dal Mediterraneo (e NON dai fiumi Giordano o Litani, NON dal Mar Morto, come insinua la propaganda anti-israeliana), distribuendone altrettanti, veicolati da colossali condutture e pipeline, fino a trasformare Israele, in pochi anni, da paese tra i più aridi in un “gigante” dell’acqua (oggi Israele trae il 55 per cento del suo bisogno di acqua “domestica” dagli impianti di desalinizzazione).
Potevamo mai immaginarlo? Israele, un Paese in perenne e storica carenza idrica, con più acqua di quanto gliene serva, a tal punto da poterla “vendere” o regalare anche ai vicini, amici o nemici che siano? Un ponte liquido, acqua in cambio di pace, da porgere ai nemici di sempre, un’offerta che non si può rifiutare e che, ob torto collo, volenti o nolenti, i Paese vicini dovranno accettare? Tutti insieme appassionatamente nella causa comune della lotta contro la siccità? Così, molti ormai lo sostengono –con solenne scaramanzia –,una nuova era sta nascendo: quella della water diplomacy, “la diplomazia dell’acqua”. Non resta che da sperarci, fino all’ultima goccia.