di Ilaria Myr
Famiglie con bambini piccoli, studenti in procinto di iniziare l’università, ma anche persone più in là con gli anni, che decidono di “mollare” quello che hanno costruito in Italia per una nuova “seconda vita”. Questi sono solo alcuni profili dei tanti italiani che negli ultimi anni hanno deciso di fare l’aliyà, trasferendosi definitivamente in Israele. Ma è soprattutto dal 2011 che il fenomeno ha assunto proporzioni davvero ragguardevoli per il nostro Paese, raggiungendo numeri inediti. «Le cifre sono letteralmente raddoppiate -spiega Arielle Di Porto, responsabile per la Sochnut dell’aliyà per l’Europa e i Paesi arabi-. Si parla infatti di un incremento di circa il 98% rispetto allo scorso anno. La maggioranza viene da Roma, circa l’80%: il resto è diviso principalmente tra Milano, Torino e Firenze. È essenzialmente un’aliyà giovane, composta da studenti e famiglie spinti da una forte motivazione sionista. A questo, però, si aggiunge senza dubbio il peso della crisi economica che, in molti casi, ha accelerato i tempi. Ma, attenzione, questa non è un’aliyà di fuga: rimane un fenomeno estremamente consapevole e convinto. Senza contare che, alla base di molte di queste aliyot, c’è un forte ritorno all’ebraismo e alla religione».
I numeri della Sochnut parlano chiaro: dal 1° gennaio al 31 luglio 2012 gli olim hadashim italiani sono stati 97, mentre nello stesso periodo dell’anno precedente erano stati 49, e, nel corso di tutto il 2011, 107. Considerando questi dati, è dunque facile pensare che alla fine di quest’anno si arrivi molto vicini alle 200 persone. «Certo, si tratta di numeri non paragonabili alle foltissime immigrazioni dalla Francia o dall’Inghilterra -continua Di Porto-. Ma sicuramente l’aliyà italiana è quella che quest’anno registra l’incremento più alto e inaspettato fra tutti i Paesi dell’Europa Occidentale».
Un’unica grande motivazione sionista, dunque, anima tutte le aliyot italiane. I motivi scatenanti, tuttavia, sono molteplici a seconda dei casi. «A grandi linee, si può dire che fra gli olim di Roma la motivazione economica è più frequente rispetto a quelli provenienti da altre città -spiega Claudia De Benedetti, presidente onorario della Sochnut Italia-. Da Milano, sono molti i giovani che vogliono studiare in Israele, per poi rimanerci, o anche famiglie giovani, che decidono di dare ai propri figli un futuro con più possibilità, in un luogo dove poter vivere serenamente la propria identità ebraica. Ci sono poi alcune famiglie che hanno fatto il ghiur e hanno deciso di trasferirsi in Israele. Alla base, però c’è sempre un forte sionismo che spinge a fare il grande passo».
LA SPINTA? LA CRISI
Proprio per affrontare la crescente domanda di aliyot, la Comunità di Roma ha creato, già tre anni fa, un assessorato interno, che affianca e integra il lavoro della Sochnut. «Con questo ufficio riusciamo a dare a chi deve partire le informazioni concrete di cui hanno bisogno -spiega Marco Moscati, delegato della Comunità ebraica di Roma, ex consigliere e oggi assessore all’aliyà-; e questo grazie all’intervento di professionisti volontari (avvocati, commercialisti, ecc..) che danno spiegazioni chiare su tutti gli aspetti burocratici e legali legati al trasferimento. Inoltre, abbiamo organizzato un ulpan, per dare un’infarinatura di ebraico a chi sta per partire, e facilitare così l’inserimento nella società israeliana». Inoltre, l’assessorato per l’aliyà ha creato un fondo, per aiutare economicamente le famiglie nel primo periodo, quando sono ancora in attesa di trovare un lavoro. E poi c’è il rapporto di collaborazione con l’Irgun Olé Italia, una onlus con sede a Gerusalemme, che si occupa di aiutare gli olim italiani una volta arrivati in Israele.
È tuttavia quest’anno, si diceva, che le aliyot italiane sono raddoppiate, e l’80% di esse è romana. «Ultimamente, la crisi economica ha colpito duramente la comunità ebraica di Roma -spiega Moscati-. Per questo alcune famiglie in difficoltà, animate da un forte sionismo, hanno deciso di trasferirsi in Israele, per poter dare un futuro migliore ai propri figli: si può dire che circa il 40% delle aliyot da Roma sono di natura economica. A queste persone il nostro ufficio dà un supporto economico, che può servire per pagare i container da spedire o per pagare l’affitto dei primi mesi. I centri di assorbimento in Israele, infatti, sono sempre meno, e quindi gli olim italiani devono per forza trovare un appartamento in affitto». Non mancano, poi, i ragazzi: giovani che vanno in Israele per studiare, convinti che lì vi siano prospettive migliori di incontro, di vita e di studio rispetto a quanto offerto dall’Italia.
«PARTIRO’ CON IL MIO ZOO»
Abbiamo dunque raccolto qualche voce, di chi ha fatto l’aliyà nell’ultimo anno, per capirne motivazioni e difficoltà incontrate sul percorso. Gente di diverse età, background e motivazioni, che testimoniano la varietà di quest’aliyà Tricolore.
Giulia Mosseri, 21 anni, da Milano: «Fin dall’età di tre anni ho sempre frequentato una scuola ebraica. Giunta in 4a superiore ho iniziato a pensare al mio futuro e l’idea prevalente è stata quella di trasferirmi in Israele per proseguire gli studi, ma con l’obiettivo di restarvi. Dopo la maturità sono riuscita, superando molte difficoltà, ma anche con molta fortuna, a realizzare il mio sogno. Arrivata in Israele ho dapprima fatto l’ulpan e poi un anno di Mehinà presso l’Università di Bar Ilan. Dopo questo primo anno di ‘prova’ ho ufficialmente fatto l’aliyà il 16 ottobre 2011. Attualmente ho terminato il primo anno di studi in Scienze Politiche e Studi dei Paesi del Medio Oriente.
Cosa mi ha spinto a fare questa scelta? Ero ben inserita nella vita comunitaria, ma non mi bastava. Sentivo di voler vivere in un Paese dove non fossi parte di una minoranza, dove potessi muovermi più a mio agio, dove i miei sforzi potessero in qualche modo essere utili al mio popolo.
E ora che sono qua, mi rendo conto di che bel Paese sia questo, giovane, dinamico, che guarda al futuro. Non è stato semplice integrarmi nella società israeliana soprattutto per il problema della lingua. Una seconda grande difficoltà è la diversità del mondo israeliano in rapporto agli altri Paesi. Israele ha al suo interno tantissimi mondi culturali tutti diversi l’uno dall’altro. Arrivata qui, ho ricevuto quello che mi spettava come nuova immigrata : 2 anni e mezzo di università pubblica pagata e 500 € ogni mese per 6 mesi come sostegno alle spese, più altre agevolazioni.
L’Italia, a mio parere, offre pochissimo ai giovani italiani, e tanto meno ai giovani ebrei italiani. I giovani hanno bisogno di valori, di speranze, di ideali. Ma soprattutto di sogni, della possibilità di vivere in un mondo migliore, creato da loro stessi. E l’Italia, diciamolo, non soddisfa più queste aspettative, e non solo da un punto di vista ebraico».
Giuseppe Dell’Ariccia e famiglia, 62 anni, da Roma: «Partirò con la mia compagna e il mio giardino zoologico, tre cani e due gatti. Partiremo nei primi mesi del 2013. In realtà, io sono molto soddisfatto del mio lavoro e della vita qui a Roma. Ma la decisione di fare l’aliyà nasce dalla volontà di realizzare un sogno, quello di essere un interprete attivo della realtà d’Israele. Attualmente non ho nessun lavoro che mi aspetta lì: ho delle idee, ovviamente, anche se so che non è facile trovare lavoro a 62 anni. La cosa che mi spaventa di più è la non padronanza dell’ebraico, ma sto cercando di migliorare. La cosa che mi rende più tranquillo: Israele è casa mia. Per la preparazione al viaggio abbiamo avuto un buon sostegno sia dalla Sochnut che dall’Assessorato all’aliyà della Comunità di Roma. Se ho paura di un conflitto con l’Iran? Non ci penso neppure: se sarà, sapremo rispondere».
Anat Levy e famiglia, da Milano: «Abbiamo fatto l’aliyà il 13 agosto 2012. La nostra primogenita è arrivata due anni fa qui in Israele per iniziare l’università. Allo stesso modo gli altri nostri figli, terminato il liceo della Scuola ebraica lo scorso luglio, avrebbero inevitabilmente lasciato l’Italia per vivere in Israele. Non me la sentivo di lasciar partire metà della nostra famiglia e consentire che vivesse in Israele senza di noi. Ma certo, alla base eravamo animati da un forte sionismo. Ambientarsi in un posto nuovo è sempre difficile, non è la solita vacanza che eravamo abituati a fare in passato. Abbiamo avuto molti problemi burocratici prima e dopo l’aliyà (i documenti da raccogliere sono stati tantissimi), ma, una volta risolti, abbiamo dato il via alla nostra quotidiana ‘normalità’. Le prime settimane sono state complicate anche per via delle novità: la casa nuova e la città ancora del tutto sconosciuta, ma la famiglia e gli amici sono stati di grande aiuto. Un Paese come Israele è certo più promettente rispetto a ciò che l’Italia ha da offrire. In questo periodo ho seguito un documentario sulla tv israeliana in cui mostrano l’Islam radicale in Europa e mai come ora sono convinta della decisione che ho preso. In questo dossier mostrano il pericolo causato da queste cellule estremiste a Malmo, Parigi, Londra, ma che rivedo tantissimo in molte esperienze vissute sulla mia pelle a Milano. Vedo i miei figli e i loro amici che vivono e studiano qui; la semplicità e la felicità di vivere mi lasciano incredula e completamente soddisfatta della scelta che abbiamo intrapreso».
Raffaele Picciotto e famiglia, da Milano: «Ho fatto l’aliyà il 19 marzo 2012, con mia moglie. Gli ultimi tempi, prima di partire, mi ero divertito ad osservare le reazioni della gente comune quando, casualmente nella conversazione annunciavo: “sapete, noi ce ne andremo tra poco da Milano”, “ ah, e dove andrete?” “a Gerusalemme …”. Ciò che ne seguiva era meritevole di un vero e proprio trattato sociologico. Vi era chi spalancava gli occhi stupito, persone che prima parlavano con una voce piatta e monotona, quasi annoiata sembravano risvegliarsi da un lungo torpore e si illuminavano. Alcuni stupiti chiedevano se non era pericoloso; probabilmente pensavano che forse eravamo un po’ matti. Alcuni ridevano, altri non davano peso e passavano oltre con malcelata ostilità.
La motivazione principale è che le nostre tre figlie hanno fatto, una dopo l’altra, l’aliyà; secondariamente perché non vediamo un futuro per noi in Italia, sia dal punto di vista ebraico che generale.
La maggiore difficoltà che abbiamo incontrato è stata la lingua, anche se avevamo una conoscenza di base. Infatti le cose spicciole di tutti i giorni sono tutte in ebraico e non siamo in grado ancora né di leggere i giornali né di capire i notiziari, né di leggere i documenti (bollette, contratti ecc.). Abbiamo però iniziato l’Ulpan e ci mettiamo grande impegno. Una sorpresa positiva è stata l’efficienza dei servizi: ad esempio, il passaporto e la patente inviatici a casa in pochi giorni, via posta, o l’assistenza sanitaria completamente digitalizzata. L’emozione più forte e inaspettata è stata la sirena: la prima volta che l’abbiamo sentita è stato per Yom HaShoah. Eravamo per strada. Il traffico si fermò, la gente scese dalle macchine, dai taxi e dagli autobus e si mise sull’attenti, insieme ai passanti sui marciapiedi. Un bizzarro e fragoroso silenzio scese sulla città. Durò solo due minuti, non volava una mosca, ma fu sufficiente per farci provare una grande commozione. Questo è davvero un Paese unico. E unico è quello che riesce a trasmettere: emozioni che vissute in prima persona si dimostrano un’esperienza indimenticabile».