di Aldo Baquis
Vent’anni dopo, Israele torna in questi mesi ad aprire la “scatola nera” dell’assassinio di Yitzhak Rabin. Si interroga, fra l’altro, se quel delitto sia stato scandagliato fin in fondo; se con Rabin ancora al timone sarebbe stato possibile raggiungere un accordo politico stabile con i palestinesi; e quale sia stata, in fin dei conti, la sua eredità politica. Direttamente connessa a questa domanda ve ne è un’altra di carattere pratico e di estrema urgenza: dove recuperare, nell’attuale scena politica, un leader capace di portare a termine l’operazione da lui intrapresa, si chiedono i cosiddetti orfani di Rabin? Un israeliano su tre, dicono i sondaggi, ritiene che Rabin sia stato vittima di una cospirazione politica, rimasta oscura almeno in parte. Il regista Amos Gitai ha affrontato l’argomento, invitando ad esplorare i possibili effetti -sull’assassino Igal Amir -, dei messaggi eversivi lanciati dai rabbini oltranzisti e dalle manifestazioni antigovernative guidate da Benyamin Netanyahu, durante i mesi precedenti l’attentato. Altri in Israele guardano invece con sospetto allo Shin Bet (il servizio di sicurezza), e al ruolo avuto dal suo agente provocatore Avishay Raviv, nome in codice Champagne. Un’inchiesta approfondita del quotidiano Maariv ha evidenziato, ancora una volta, che per quanto fascinose, le teorie complottistiche hanno poca sostanza.
Oggi, la nostalgia per Rabin resta tangibile. Fra i sostenitori della Destra è valutata al 24 per cento; al centro sale al 52 per cento, mentre negli ambienti della Sinistra egli manca profondamente ad otto interrogati su dieci. Non fosse stato ucciso, dice la maggioranza relativa, la situazione internazionale di Israele sarebbe sicuramente migliore di quella attuale. Ma forse, più che alla sua persona, la nostalgia va ad una società israeliana che non c’è più, ormai relegata al passato. Ad un Israele che allora – sotto la guida di Rabin -, cercava di plasmarsi in un Paese democratico e laico di stampo occidentale e che oggi invece vede molto rafforzate le sue componenti religiose e nazionalistiche. Sempre meno simile a Tel Aviv e più a Gerusalemme. Dati alla mano (la fonte è quella del ricercatore Shaul Arieli), nel 1995 – quando Rabin fu assassinato -, 238 mila ebrei vivevano complessivamente a Gerusalemme est e in Cisgiordania, accanto a un milione di palestinesi. Nel 2013, nelle stesse aree, il numero degli ebrei era di 555 mila (e oggi si è raggiunta quota 600 mila), che convivevano con 2,7 milioni di palestinesi. La necessità di un accordo si è fatta ancora più urgente: ma oggi – ormai agli antipodi dal governo Rabin -, la stragrande maggioranza dei ministri di Benyamin Netanyahu si oppone alla soluzione dei due Stati.
In questo contesto vale la pena di tornare al pensiero politico di Rabin. Chi lo ha immortalato come un pacifista incallito alla John Lennon, probabilmente gli fa torto. Nella sua carriera militare Rabin ha avuto spesso fama di falco. Nella prima intifada palestinese, da Ministro della Difesa, diede ordine di spezzare braccia e gambe ai rivoltosi palestinesi. Tornato all’inizio degli anni Novanta alla carica di premier, ordinò l’espulsione in Libano di 400 dirigenti politici e militari di Hamas. La sua visione della pace discendeva dalla considerazione, in quanto ex generale, che Israele non avrebbe potuto mantenere all’infinito la sua superiorità militare sui vicini: nessun muscolo, spiegava, può restare teso all’infinito. Preoccupato già allora dalla minaccia iraniana, concluse che per meglio difendere Israele occorreva puntare ad accordi con i vicini immediati: la Giordania (che in effetti sotto la guida di re Hussein si rivelò amica); la Siria di Hafez Assad (che teoricamente avrebbe portato con sé al tavolo di trattative anche il Libano), e i palestinesi. Se la Siria avesse reagito in maniera più volitiva alla sua disponibilità (sussurrata in un orecchio dell’allora Segretario di Stato Usa), di rinunciare al Golan in cambio di adeguati accorgimenti di sicurezza, il processo di pace sarebbe stato pilotato verso Damasco.
Invece quel percorso rimase bloccato e Rabin prese allora in mano – con molta circospezione -, la carta dell’Olp. L’obiettivo, disse poi ad Arafat, era di andare ad una separazione fra i due popoli “nel mutuo rispetto”. Non una love story, semmai una operazione chirurgica complessa e pericolosa, di importanza vitale per entrambi.
Vent’anni dopo, la società israeliana è molto cambiata. Se all’epoca di Rabin i laburisti disponevano in media di una quarantina di seggi (su un totale di 120), da allora il loro peso parlamentare si è dimezzato. Troppo poco per formare un governo, e tanto meno per guidare un controverso processo di pace possibilmente contro il volere di oltre mezzo milione di israeliani stabilitisi ormai da generazioni in terre contese. Le condizioni del suo partito stringono il cuore. In 20 anni ha cambiato nove leader, uno ogni due anni. Penosamente, i laburisti cercano di volta in volta di fregiarsi di un generale che li conduca al potere grazie al proprio carisma militare. L’esperimento condotto con Ehud Barak è stato disastroso. Altri possibili candidati (i generali Gaby Ashkenazi e Beny Gantz) sono rimasti sulla carta. Oggi il partito è guidato da Yitzhak Herzog: persona garbata, ma di modesto ascendente. Dove possono guardare allora, gli orfani di Rabin? Una risposta potrebbe venire dalla città periferica di Sderot, nel Neghev, spesso bersaglio dei razzi palestinesi di Gaza. Proprio là, in quello che viene definito “il secondo Israele” – ossia le cittadine periferiche in Galilea e nel Neghev e i rioni fatiscenti delle grandi città, dove negli anni Cinquanta e Sessanta furono insediati gli ebrei immigrati in massa dai Paesi arabi -, è emerso un leader nazionale atipico: Amir (Armand) Peretz, nato 63 anni fa in un villaggio del Marocco. Ferito in guerra, ha trascorso due anni in ospedale. Cresciuto nella politica municipale, ha ricoperto un incarico minore nel governo Rabin del 1992-95, poi ha guidato il sindacato nazionale Histadrut. Nel governo di Ehud Olmert (2006-2008), ha rivestito a sorpresa la carica di Ministro della Difesa e, nello scetticismo generale, ha avuto un’idea geniale. Fu lui infatti a volere con tenacia il sistema di difesa Iron Dome, rivelatosi anni dopo di importanza vitale per la difesa del Neghev. A novembre, in un dibattito organizzato da Haaretz (il logo mostrava una colomba prigioniera in un blocco di ghiaccio), Peretz ha elettrizzato i presenti con un acceso intervento a favore di una iniziativa di pace israeliana. Peretz polemizzava con Benyamin Netanyahu, che pochi giorni prima aveva invitato gli israeliani a rassegnarsi ad un futuro di continui conflitti. Peretz lo ha accusato di essere “un pavido’’. Il tempo – ha aggiunto – non lavora a favore di Israele, la cui delegittimazione si fa sempre più preoccupante. Sul tavolo, ha messo un piano di pace in tre fasi. Come prima cosa, ha spiegato, vanno congelate le colonie e va imposta la cessazione dell’incitazione anti ebraica nei media palestinesi. Poi, devono essere lanciate trattative rapide – durata di un anno al massimo -, sulla base dei confini del 1967, e con lo scambio di terre. Israele annetterebbe il 5 per cento della Cisgiordania (per assorbire l’80 per cento dei coloni), e darebbe alla Palestina terre proprie, di eguale estensione. Punto tre: spartizione di Gerusalemme fra rioni ebraici e palestinesi e gestione congiunta israelo-palestinese dei luoghi santi in Città vecchia. Quindi la firma di accordi definitivi, col sostegno di Paesi arabi, fra Israele e una Palestina smilitarizzata.
Rispetto ad altri leader laburisti, Peretz ha una carta in più: la capacità di rivolgersi al “secondo Israele” da pari a pari e di collegare la questione palestinese a quella della giustizia sociale. Ossia di riprendere in mano la tesi secondo cui il calo continuo nel livello dei servizi sociali, della sanità e della educazione in Israele, nonché la crescita del divario sociale – e tutto ciò in uno Stato che si trova in condizioni buone di macroeconomia -, non sono accidentali ma hanno invece a che vedere con l’occupazione nei Territori e con gli investimenti, continui e massicci, nelle colonie. Per certi versi era un tema molto vicino a Rabin, che è tuttora ricordato come un premier sensibile alle questioni sociali e dell’educazione. Finora il “secondo Israele” è rimasto fedele al Likud ed impermeabile ai messaggi della Sinistra. Fino a quando? Tra le colombe, solo Peretz ha oggi speranza di aprire una breccia.