Arabi-israeliani, nella morsa del conflitto

Israele

di Aldo Baquis

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Ha-Simta Bar, il locale di Tel Aviv dove il 1 gennaio 2016 un terrorista arabo israeliano ha ucciso due persone

Il primo giorno del 2016, un venerdì, a Tel Aviv la temperatura era rigida e potenti marosi si abbattevano sul lungomare. Ma nelle ore precedenti il riposo sabbatico in cui la città rallenta il ritmo, nel piccolo pub HaSimtà, nella centralissima Rehov Dizengoff, l’atmosfera del primo pomeriggio era calorosa. Un’allegra compagnia festeggiava un compleanno quando da un negozio vicino è balzato fuori un uomo che impugnava un fucile Falcon, di produzione italiana.

Con calma micidiale l’uomo – Nashat Melhem, 29 anni, “Nash-Nash” per gli israeliani che lo hanno conosciuto in tempi migliori -, ha puntato l’arma e ha sparato decine di colpi verso i tavoli, uccidendo due avventori e ferendone altri otto.  Mentre nel locale era il caos, Melhem si è eclissato a bordo di un taxi guidato da un arabo israeliano, che per sua sfortuna era dotato di telecamere di sicurezza. Il killer ha allora costretto il conducente a raggiungere una zona disabitata, lo ha freddato a bruciapelo, e ha manomesso le telecamere. Poi si è dileguato.
Attacco terroristico, oppure qualcos’altro di più tenebroso? Per una settimana la polizia israeliana è rimasta sul vago. All’ottavo giorno la gigantesca caccia all’arabo israeliano si è conclusa nel suo villaggio di origine di Arara, 60 chilometri a nord di Tel Aviv. Unità speciali della polizia lo hanno braccato fino al suo ultimo nascondiglio, nella trasandata abitazione di una congiunta gravemente ammalata e assente da mesi, a pochi passi da un piccola moschea e dall’emporio di quartiere di Mohammed Shehade, che adesso è nei guai per avergli venduto un pacchetto di sigarette, mentre ancora “Nash-Nash” era braccato come “Pericolo pubblico Numero Uno”. Snidato da un cane segugio, Nashat ha tentato la fuga per un vialetto laterale, ma è stato centrato da un cecchino e si è così portato con sé il segreto delle motivazioni dell’attacco a Tel Aviv. Ad Arara c’è chi dice che il colpo mortale non è stato inferto a caso, che qualcuno voleva che Nashat tacesse per sempre. Ma è stato davvero un atto di terrorismo (di cui, molto a posteriori, si è vantato lo Stato islamico)? Oppure una vendetta privata? E se così, per che cosa esattamente?
All’indomani dell’attacco, il sabato sera, dopo un breve sopralluogo nel pub, il premier Benyamin Netanyahu ha puntato un dito accusatore verso l’intera minoranza araba di Israele, circa il 20 per cento della popolazione. Ha deprecato che detengano quantità di armi illegali, che abbiano creato aree dove le autorità esitano ad entrare, ha richiesto la loro incondizionata fedeltà al Paese, ha anticipato che disseminerà stazioni di polizia nelle loro città e ha infine esclamato: «Non consentirò che all’interno di Israele si crei un altro Stato».
Gli arabi israeliani sono caduti dalle nuvole. Le armi illegali? Da anni erano loro stessi a esigere dalla polizia che ne facesse piazza pulita, perché i tassi di criminalità nelle loro città sono ormai insopportabili. Proprio le autorità – hanno aggiunto -, sono sempre state latitanti. Se Netanyahu voleva recriminare per una situazione degradata – hanno polemizzato – che si guardasse allo specchio. Non è forse lui il Primo ministro incontrastato da oltre sei anni? In tempi di Intifada, mentre ogni giorno assalitori palestinesi sono uccisi dalle forze dell’ordine per lo più in Cisgiordania o a Gerusalemme, non è facile essere arabo in Israele. Il cuore palpita per ogni vittima palestinese. Ma la ragione dice che su tutto deve prevalere la routine di vita.
Molti abitanti del Wadi Ara, la zona da dove proveniva Nashat, parlano ebraico fluente, lavorano spalla a spalla con ebrei, si sentono parte della società israeliana. Nelle località ebraiche vicine (Hadera, Pardes Hanna, Zichron Yaakov), sono spesso arabi i medici, i dentisti, i gestori di farmacie, le cassiere dei supermaket.
Leggono gli stessi giornali degli ebrei, seguono gli stessi programmi televisivi. A pochi chilometri da Arara, a Kfar Qara, funziona da anni una scuola arabo-ebraica che rappresenta un punto di riferimento luminoso per quanti credono nel buon vicinato. In un McDonald’s distante pochi chilometri, è frequente vedere donne arabe velate accudire nidiate di figli che si mischiano con i bambini del vicino kibbutz socialista di Gan Shmuel. Anche quando quelle donne parlano arabo fra di loro, tre parole su dieci sono – vedi caso – in ebraico. Ma nel dopo-Nashat (ossia dopo la brusca sfuriata di Netanyahu), quando passavano in strada, fra ebrei, si sono sentite occhiate cariche di sospetto.
Certo, nel Wadi Ara, ad esempio nella città di Um el-Fahem (100 mila abitanti), si sentono anche voci ben diverse. Ad esempio quella tonante dell’ex sindaco e sceicco Raed Sallah, leader della frazione nord del Movimento islamico, che da anni si è creato grande popolarità nel mondo arabo avendo martellato uno slogan (del tutto mendace ed infondato, secondo Israele), secondo cui «La Moschea al-Aqsa è in pericolo». Perché, accusa, sarebbe minata alla base con continui scavi archeologici. All’inizio della Intifada dei coltelli, quando appunto la moschea al-Aqsa era al centro delle frizioni, lo sceicco Sallah (che fra l’altro è un aperto sostenitore ideologico del Califfato) ha accresciuto la veemenza dei suoi attacchi rilanciati nelle moschee e ha organizzato gruppi di dimostranti che quotidianamente si scontravano con la polizia. Quei gruppi (Morabitun e Morabitat), e il Movimento islamico (frazione nord), sono stati messi fuori legge. Lo stesso Sallah – che mantiene contatti aperti con fondamentalisti islamici in Turchia e forse anche legami segreti con Hamas – dovrà presto scontare un periodo di detenzione.
Ma a quasi quattro mesi dall’inizio della Intifada, la minoranza araba israeliana nel suo insieme non ha preso parte attiva agli attacchi. Ha anzi espresso, nell’ultimo anno, dirigenti pragmatici: come il leader della Lista araba unita – il comunista Ayman Odeh, ospite gradito di recente a Washington – e il sindaco indipendente di Nazareth Ali Salem (di recente ricevuto da un sorridente Netanyahu a Gerusalemme).
Proprio a gennaio il Ministero delle Finanze ha messo a punto un piano ambizioso per risollevare le condizioni della minoranza araba che – lo ammettono un po’ tutti – è stata a lungo vittima di discriminazione, o di distrazione, o comunque di incuria governativa. Adesso sul tavolo vengono messi 15 miliardi di shekel per un piano quinquennale nel corso del quale si dovranno modernizzare le infrastrutture del settore arabo, riordinare l’edilizia e sollevare la qualità della educazione.
Gli economisti di Israele sono infatti giunti alla conclusione che per rilanciare il mercato israeliano bisogna lavorare in profondità e far fiorire due settori che sono aggravati da povertà endemica e da altre mancanze sociali: gli arabi, appunto, e gli ebrei ortodossi. Investendo su di loro, il Ministero delle Finanze punta in realtà sul futuro delle prossime generazioni di Israele.
Il raptus di Nashat Melhem, quale che fosse la sua intenzione originale, ha avuto l’effetto di puntare un forte riflettore sulla questione della minoranza araba in Israele. Lasciarla in balia dei messaggi eversivi che giungono di continuo dal mondo arabo in subbuglio, oppure puntare con determinazione ad una sua rapida emancipazione? Le risposte che il governo di Gerusalemme e i dirigenti politici della minoranza araba saparanno dare oggi determineranno il futuro di Israele nella prossima
generazione.

(Twitter: @aldbaq)