di Luciano Assin
In un articolo pubblicato sul quotidiano “Yedioth haAhronot” della settimana scorsa, Sever Plotzker, il maggiore commentatore economico del giornale, analizza la questione nucleare iraniana da un punto di vista di costi e ricavi arrivando così a delle conclusioni molto diverse ma soprattutto molto originali da quelle generalmente diffuse sui vari mezzi di comunicazione.
Plotzker sostiene che l’Iran ha da tempo deciso di abbandonare la strade del nucleare. I costi si stanno rivelando proibitivi non solo in termini di investimenti legati al progetto – si parla di qualcosa come 350 miliardi di dollari – ma anche e soprattutto di quanto il progetto nucleare influisca negativamente su tutta l’economia iraniana.
Le trattative di Ginevra, la politica delle sanzioni occidentali, l’embargo economico non sono stati in grado di mettere in ginocchio il regime degli Ayatollah; è la stessa leadership iraniana che sta sfruttando questi strumenti per poter salvare la faccia ed invertire la rotta senza dover ammettere che il progetto nucleare si è dimostrato un gigantesco buco nell’acqua costato al popolo iraniano anni di sacrifici e di ritardi enormi nello sviluppo economico del paese.
L’esempio più lampante di quanto la decisione di investire sul nucleare sia stata deleteria per lo sviluppo economico del paese viene dal confronto con uno dei paesi confinanti: la Turchia. Nonostante il numero degli abitanti sia abbastanza simile, la situazione economica della repubblica islamica è infinitamente peggiore. All’Iran mancano industrie, beni e merci da esportare, sovrastrutture moderne per poter essere competitivi con la concorrenza, senza parlare di quanto la situazione politica abbia influenzato i possibili investimenti.
Sfogliando i dati del 2011 si può notare come la produzione annua del lavoratore iraniano si aggirava attorno ai 15mila dollari annui a fronte dei 25mila prodotti dal suo vicino turco. Il PIL turco era quasi il doppio di quello iraniano. E non bisogna dimenticare che a differenza della Turchia l’Iran dispone di immense riserve petrolifere senza le quali il divario sarebbe ancora maggiore.
Analizzando la situazione da un punto di vista prettamente economico, si augura Plutzker, è lecito supporre che al di là delle roboanti dichiarazioni iraniane, la leadership degli Ayatollah abbia già deciso di abbandonare, almeno per il momento il progetto. Un progetto che, detto per inciso, è iniziato già nei giorni dello Shah. Personalmente sono molto affascinato da una tesi del genere, è indubbio che le motivazioni economiche siano sempre in primo piano nei confronti politici a tutte le latitudini.
Un’analisi del genere, basata su parametri prettamente economici, può spiegare in maniera soddisfacente il crollo dell’URSS, la caduta dell’Apartheid, l’apertura cinese al mercato globale ed altri simili episodi storici. E’ da notare anche che tutti gli esempi sopracitati si riferiscono a regimi non proprio democratici, un fatto che non fa che rafforzare l’importanza del fattore economico. Fra sei mesi, al riprendersi delle trattative, si avranno elementi maggiori per capire dove soffia il vento iraniano, il problema è che non tutti ragionano con un metro di giudizio occidentale, e quello che ai nostri occhi può apparire ovvio e scontato, non sempre lo è per la controparte.
Luciano Assin