di Avi Shalom
È la vicenda del sergente Elor Azaria che un anno fa, a Hebron, sparò e uccise un terrorista palestinese disteso a terra, ferito. L’accusa: omicidio e violazione del Codice militare. Ma fu legittima difesa? Sete di vendetta? Colpevole o innocente? Dopo un anno di processo, la sentenza, 18 mesi. Cronaca di un caso che ha spaccato il Paese. E che non smette di far discutere
PROLOGO. Hebron, Cisgiordania. È il 24 marzo 2016. La comunità ebraica locale festeggia il Purim e l’Intelligence e lo Shin Bet informano che sono previsti attentati palestinesi. Alle otto di mattina, cambio di guardia al posto di blocco Gilbert, istituito in difesa degli israeliani del posto. Un ufficiale e un sergente prendono servizio. Passano pochi minuti e vengono assaliti da due giovani palestinesi armati di coltelli: Ramzi Aziz Qazrawi e Abdel Fatah al-Sharif. Il sergente è ferito al collo. Gli spari di reazione dei militari sono immediati. Qazrawi resta ucciso sul terreno. Al-Sharif è colpito da sei proiettili e agonizza sull’asfalto. Per prudenza il suo coltello è allontanato, con un calcio, da un passante ebreo. Nelle immediate vicinanze un calzolaio palestinese riprende la scena con una videocamera della Ong per i diritti civili Betzelem. Sul luogo sopraggiunge un infermiere militare, il sergente Elor Azaria. Prima esamina la situazione; poi con calma si avvicina ad al-Sharif, punta il proprio fucile M-4 e gli esplode alla testa il colpo fatale. Sono trascorsi dodici minuti dalla “neutralizzazione” dei due assalitori. A Hebron sono ora le 8.33 e Israele si spacca: ha fatto bene a sparare, oppure va processato? Il tema appassionerà l’opinione pubblica per l’intero anno 2016.
A onor di cronaca, va ricordato che in quei mesi, un anno fa, gli attacchi di assalitori palestinesi erano frequenti in Cisgiordania o a Gerusalemme, ma anche in altre località di Israele. Si trattava di attacchi a sorpresa, frutto di una decisione repentina dell’autore talvolta armato di un coltello, o anche di forbici; oppure al volante di veicoli-killer lanciati sui passanti; oppure, più di rado, mediante armi da fuoco. Sospinti dalla crescente esasperazione della opinione pubblica, molti dirigenti politici e anche una parte del mondo rabbinico si erano allora abbandonati a dichiarazioni frementi, teorizzando fra l’altro che quel genere di assalitori (fra cui anche adolescenti palestinesi), non sarebbero dovuti mai uscire vivi dagli attacchi. Parole di fuoco amplificate poi dai social-network in un crescendo di enfasi che non può non essere arrivata anche ai soldati di leva dislocati a Hebron: diciottenni catapultati in uno dei posti di maggiore frizione del conflitto, dove sono particolarmente forti sia gli integralisti islamici palestinesi sia gli israeliani nazional-religiosi. La prima a farne le spese potrebbe essere stata quindi la disciplina militare abitualmente perentoria, molto osservata sui vari fronti di Israele, – specie dove la popolazione civile è minima e dove i rapporti fra comandanti e truppa sono ancora limpidi-. Ma non nel calderone di Hebron, non il 24 marzo 2016, dove tutto si sarebbe confuso. Se da un lato i media hanno descritto Azaria in maniera concorde, ovvero come un soldato modello, dall’altro nella propria pagina Facebook Azaria si identificava col club sportivo di estrema destra e xenofobo “La Familia”. E allora, che cosa lo ha spinto a sopprimere al-Sharif? Il timore che nascondesse un corpetto esplosivo? Oppure un desiderio di vendetta veicolato da pensatori e social network della destra radicale?
Questo il prologo di una vicenda che ha spaccato il Paese e che è arrivata al suo epilogo oggi, un anno dopo, con una sentenza storica. Un caso le cui tappe sono state un crescendo di controversie e divisioni nella società civile e politica israeliana.
Versioni discordanti
C’è da dire che su un episodio talmente drammatico, il mondo politico avrebbe dovuto fare subito chiarezza. Inizialmente ci aveva provato il Ministro della Difesa Moshe Yaalon (Likud), che alla Knesset aveva ricordato che il Codice militare vieta di uccidere nemici già neutralizzati (andrebbero curati sul posto, poi presi in custodia). «Non possiamo certo agire alla stregua di bande», aveva esclamato Yaalon, col pieno consenso del capo di Stato maggiore Gadi Eisenkot secondo cui il soldato in quel frangente aveva «agito male». Entrambi pensavano di aver detto una cosa ovvia e condivisa, ma presto avrebbero scoperto che la destra radicale aveva elaborato in merito una concezione ben diversa. Ecco così che parole di aperto sostegno ad Azaria sono giunte dal leader di Focolare ebraico (e Ministro dell’istruzione) Naftali Bennett – un sostenitore del movimento dei coloni – e da Avigdor Lieberman (Israel Beitenu, destra radicale laica), il quale si sarebbe anzi presentato in persona in una Corte militare per sostenere Azaria da vicino. Lo stesso Netanyahu avrebbe poi preferito schierarsi con quelli che gli sembravano essere gli umori popolari, telefonando in forma privata al padre di Azaria per esprimergli simpatia “da genitore a genitore”.
Intanto sui social nettwork si moltiplicavano i messaggi di odio verso il Ministro della Difesa MosheYaalon (un generale della riserva), contro i giudici militari e contro quei media giudicati non patriottici. A maggio 2016, in occasione della Giornata della Shoah, sarebbe stato un altro generale – il Vicecapo di Stato maggiore Yair Golan – a entrare nel mirino della destra radicale dopo aver dichiarato: «Vedo in atto processi che fanno rabbividire, simili a quelli che si verificarono in Europa in generale, e in Germania in particolare, 70-80-90 anni fa. Ne troviamo testimonianza qua fra noi nel 2016». Parole pesanti. In seguito, il portavoce militare spiegherà che il generale Golan era stato frainteso, benchè Moshe Yaalon lo avesse immediatamente difeso dalle critiche. Intanto la piazza era in fiamme, insorta e, due mesi dopo gli spari di Hebron, cadeva la prima testa: quella appunto di Yaalon, costretto da Netanyahu a dimettersi e a cedere il Ministero della Difesa (per una serie di motivi, fra cui il controverso acquisto di sottomarini tedeschi) proprio a Lieberman, il più rumoroso sostenitore di Azaria. Suo malgrado, il piccolo sergente Azaria sarà strumentalizzato dai grandi della politica nazionale per finalità che poco avevano a che vedere con l’episodio di Hebron.
Ma veniamo a lui, Azaria. Con l’inizio del processo si scopre che il soldato ha fornito versioni contradditorie. Nella prima aveva ammesso di aver inteso vendicare il sergente ferito. Poi aveva sostenuto che al-Sharif si muoveva e che avrebbe potuto ancora raggiungere il suo coltello. Poi si sarebbe ricordato del giubbotto rigonfio di al-Sharif che poteva nascondere un corpetto esplosivo. Ma l’intera linea difensiva è stata via via smantellata dall’accusa. Fuori dall’aula della Corte militare, anche l’esercito è stato trascinato sul banco degli imputati quando un’inchiesta della televisione Canale 2 ha messo in luce l’inefficienza dei superiori diretti di Azaria, che avrebbero abbandonato a lungo il luogo dell’incidente ai coloni di Hebron. Le immagini dimostrano che furono proprio questi ultimi a spingere via, di qua e di là, il coltello di al-Sharif; e che furono loro a urlare che poteva esserci un corpetto esplosivo, pur tuttavia restando tranquilli vicino al palestinese agonizzante a terra. Secondo l’emittente, è usanza che i coloni siano soliti “coccolare” i soldati con piccoli regali e doni. Ecco perchè diventa comprensibile come, strattonati dalle opposte pressioni esercitate da una parte dai loro immediati superiori e dall’altra dai coloni, i militari di basso grado rischiano a dir poco disorientamento, avventatezza.
Ultimo atto, la sentenza
Oggi, al termine del processo appare chiaro che Azaria ha ovviamente disobbedito alla disciplina militare; ma anche che è stato fortemente influenzato dall’ambiente nazional-religioso circostante; e che di fatto, per tutto il 2016, si è giocata sulla sua pelle una partita politica che ha trasceso la sua persona. Uno stato di cose registrato dai sondaggi di opinione secondo cui la maggioranza degli israeliani ritiene oggi che l’intero processo sia stato inopportuno; che Azaria sia stato punito a sufficienza in questi mesi di assedio mediatico, mentre emerge il timore che una sua eventuale condanna rischierebbe di rendere i soldati israeliani titubanti di fronte a futuri attentati.
E ora l’epilogo. Tel Aviv, 4 gennaio 2017. Centinaia di dimostranti di estrema destra rumoreggiano sotto il Ministero della Difesa, scandendo slogan a favore di Azaria. Ma nella Corte militare riunita, i tre giudici sono concordi. «In quelle circostanze – stabiliscono – era vietato sparare. Quegli spari – proseguono – non erano legati ad alcun pericolo che poteva ancora scaturire dal terrorista. Essi furono motivati piuttosto dal precedente ferimento di un commilitone di Azaria. Secondo lui ‘il terrorista meritava di morire’. Condanniamo pertanto l’imputato per omicidio colposo e per comportamento indebito». Per strada, fuori dalla Corte, scontri e colluttazioni tra dimostranti e polizia. «Gadi, Gadi – scandivano, riferendosi al capo di Stato maggiore, il generale Gadi Eizenkot – stai attento, Rabin cerca un amico», alludendo al fatto che il generale sta rischiando cioè di raggiungerlo lassù in Cielo.
Minacce altresì lanciate anche contro i giudici militari, che ormai escono sotto scorta e con guardie del corpo. Per ore, il Primo ministro Benyamin Netanyahu ha taciuto. Poi – senza fare riferimenti alle intimidazioni verso i vertici militari – ha auspicato che Azaria possa beneficiare in definitiva di una grazia.
La pubblica accusa ha chiesto una pena di 3/5 anni di reclusione. Il piccolo soldato Azaria ha invocato la clemenza della corte. Infine la sentenza: 18 mesi di carcere e sei mesi con la condizionale. Il 67 % degli israeliani, a favore della clemenza, promette battaglia e scende in piazza.