di Fiona Diwan
Riproponiamo un articolo uscito su Informazione Corretta il 12 febbraio firmato da Fiona Diwan, direttore del Bollettino magazine e di Mosaico.
Ci sono individui e società che si distinguono per la forza delle domande che si pongono e non per le risposte, più o meno convincenti, che riescono a darsi. Accade oggi in Israele sul caso del ventenne sergente Elor Azaria, condannato per omicidio colposo il 4 gennaio scorso e in attesa, il prossimo 21 febbraio, di una definitiva sentenza e attribuzione di pena che si preannunciano come storiche. Un caso che dal marzo 2016, per un anno, non ha cessato di dividere Israele con dibattiti e furibonde polemiche tra innocentisti e colpevolisti, e che non smette di infiammare l’opinione pubblica, specie ora in vista della sentenza finale.
Colpevole di aver ucciso a Hebron (una delle zone più calde e di frizione), un terrorista palestinese ferito a terra, Azaria deve rispondere anche di una tra le più gravi violazioni del Codice militare, ovvero il divieto per un soldato in servizio di aprire il fuoco contro un nemico “neutralizzato”, al suolo e ferito. Giudicato da un tribunale militare, Azaria ha chiesto la grazia, si è appellato alla clemenza della Corte e non si è mai dichiarato pentito del gesto che ha fatto; la pubblica accusa ha chiesto una pena tra i 2 e i 5 anni (per un reato del genere la pena massima è 20 anni di reclusione).
Senza entrare troppo nel merito e nei dettagli di una storia ampiamente raccontata dalle cronache e reperibile on line, quello su cui qui mi preme riflettere sono i quesiti che quella vicenda pone e su come si stia interrogando (e rispondendo) una società democratica, sfaccettata e pluralista, divisa al suo interno, vitalissima malgrado la costante minaccia – e per questo facilmente incline all’esasperazione -, ma alla fine mai disposta a seppellire il proprio Codice morale anche davanti a faccende scomode o spinose come questa.
Che cosa possiamo capire dal caso Azaria? Innanzitutto che il verdetto pronunciato all’unanimità di condanna per Azaria, per omicidio colposo, non lascia spazio a dubbi o perplessità sulla natura democratica e concettualmente occidentale delle istituzioni israeliane e del suo sistema giudiziario. Inoltre, tra le righe, quel tribunale militare ci sta dicendo una cosa molto importante: ovvero che Israele non accetterà in nessun modo di essere trascinato nelle profondità amorali di chi cerca di annientarlo con cinture esplosive fatte indossare a martiri ragazzini, depositi di munizioni nascosti nelle scuole, camion-killer lanciati su civili inermi. E che proprio per questo, nessun compromesso è possibile con chi, come Hamas, oltre a voler annientare Israele, oltre a voler renderne invivibile la quotidianità, ambisce a distruggerne gradualmente i valori e i principi fondativi, a minarne gli sforzi a mantenere la propria moralità di fronte a un’ostilità omicidaria vieppiù insopportabile. Come diceva Golda Meir, potremo perdonarvi la morte dei nostri soldati ma non vi perdoneremo mai di averci obbligato a uccidere i vostri figli.
La lotta per mettere in sicurezza Israele e i suoi abitanti cercando di non cedere sull’eticità del proprio agire, – e ancor più oggi, in un momento in cui la comunità internazionale accusa Israele di immoralità, cercando di delegittimarlo – , è una sfida aperta e costante. Ecco allora che arriva il piccolo sergente Azaria e abbatte a Hebron un terrorista già disarmato e steso a terra. E allora, come la mettiamo? La risposta è, a mio avviso, tutta in quel verdetto di condanna, in quei tre giudici che minuziosamente lo hanno giudicato colpevole. Non solo. Il fatto che un intero Paese continui a interrogarsi sulle ricadute di una condanna o di un’eventuale grazia, ci racconta questa vitalità civile impensabile in nessuno degli stati che circondano Israele.
Ma torniamo a Azaria e alle domande di cui parlavo all’inizio. Se da un lato i media lo hanno descritto in maniera concorde, ovvero come un soldato modello, allora, che cosa lo ha spinto a sopprimere il terrorista al-Sharif? Il timore che nascondesse un corpetto esplosivo? Oppure un desiderio di vendetta veicolato da pensatori radicali e social network della destra estrema? Un’effettiva paura per la propria vita oppure perché, secondo lui, “il terrorista meritava di morire”? E se il sergente venisse graziato, quale principio di liceità verrebbe sdoganato, la licenza di sparare su un uomo ferito a terra? Quale possibile disciplina militare potrebbe mai ancora essere imposta? E se invece per Azaria si optasse per una pena severa, quale soldato non esiterebbe d’ora in avanti a sparare, perdendo istanti preziosi e mettendo così a rischio la propria e l’altrui vita, venendo meno al proprio ruolo di difesa? Queste e molte altre le domande sul tappeto.
Ma torniamo alla sentenza e a quello che finora i giudici militari sembrano volerci dire. Ossia che è la legittimità di Israele ad essere in ballo. E soprattutto, che è la moralità di Israele ad essere al centro della sua legittimità, e che senza l’una l’altra non può sussistere. E che tutto questo non ha nulla a che vedere con quello che il mondo pensa di Israele, ma ha tutto a che vedere con quello che Israele pensa di se stesso.