di Mara Vigevani
«Qual è la mia vera casa? Dov’è il mio posto naturale? Dove posso crescere meglio i miei figli? Nel villaggio arabo dove sono vissuto con la mia famiglia o nella moderna Gerusalemme occidentale? In che lingua rispondere agli operai arabi che stanno ristrutturando l’appartamento che ho appena comprato in un quartiere residenziale di Gerusalemme Ovest? E soprattutto cosa rispondere quando gli stessi operai mi chiedono increduli: tu sei arabo? E perché vivi qui?». Queste le domande che Sayed Kashua si è posto (non per la prima volta), nel suo ultimo articolo per il quotidiano Haaretz, dove scrive settimanalmente.
In Israele è una vera star: di giorno tra Tel Aviv e Gerusalemme; di sera, accompagnato da un entourage di intellettuali, lo si trova a Mahaneyehuda , il ristorante più alla moda della capitale, sempre con in mano un bicchiere di buon vino. Chi vive a Gerusalemme lo conosce bene: lo si vede passare i pomeriggi a scrivere sul suo portatile, mentre aspetta che la figlia, unica ragazza araba a frequentare il prestigioso liceo Liada, finisca la lezione di nuoto, tennis o altro.
Questa è la vita dell’arabo israeliano più famoso di Israele. L’unico che sia riuscito a fare del “paradosso” della vita degli arabi israeliani -costretti a un continuo balletto sulle punte tra le due identità-, un argomento popolare. «Basta. Basta con questa guerra -scriveva poche settimane fa nel pieno dell’operazione Colonna di Fumo -non si può, per una volta, smetterla, senza vincitori né vinti, senza forza, senza morti… perché i capi militari delle due parti non possono sedersi davanti a un buon drink e parlare? Mi dispiace, io penso ancora che la violenza non sia l’unica soluzione; addirittura credo ancora nelle persone, che si possa dialogare, anche se tutti pensano di avere ragione, anche se tutti hanno paura di tutti. Non capisco di guerra, non capisco di forza, ma capisco di lacrime». Autore di due libri, Arabi Danzanti e E fu mattina, ha raccontato le assurdità della sua vita in un telefilm a puntate, Avoda Aravit, uno slang per dire in ebraico “lavoro fatto male”: questo il nome della serie televisiva che racconta la vita di uno sfortunato giornalista arabo israeliano, Amjad, che fa del suo meglio per essere accettato dalla società israeliana e fallisce continuamente. Nella puntata dedicata al Sessantesimo Giorno dell’Indipendenza, la moglie di Amjad, Bushra, partorisce proprio un minuto dopo l’inizio della festa. Un ricco russo israeliano aveva promesso un milione di shekel al primo bambino nato il giorno dell’Indipendenza, quando però viene a sapere che è arabo decide di aggiungere una condizione: il bambino si deve chiamare Israel. Amjad accetta, ma non solo: propone di chiamarlo addirittura Teodoro Herzl.