di Paolo Salom
In Israele ci saranno le elezioni. Il 17 marzo gli elettori saranno chiamati a scegliere nuovamente chi guiderà la nazione, Netanyahu, Livni, Lapid o chissà quale outsider dell’ultimo momento. A noi, qui, non interessa chi sarà il più votato, chi sarà il nuovo premier dello Stato ebraico. Se ne parliamo è perché nel lontano Occidente la scelta è già stata fatta. Come se le elezioni anticipate israeliane fossero una questione nazionale. Ecco, prendete per esempio la reazione di Barack Obama: secondo indiscrezioni, nei corridoi della Casa Bianca si sarebbero udite grida di giubilo alla notizia che Bibi Netanyahu aveva deciso di sciogliere la Knesset e indire nuove consultazioni. Una reazione poco diplomatica ma certamente (se le cose sono andate davvero così) indicativa dell’opinione che il principale alleato ha del leader uscente del Likud. Legittimo? A nostro parere, no. Perché, al di là dei meriti o dei demeriti di Netanyahu (desideriamo ribadire, a scanso di equivoci, che non intendiamo scriverne un’agiografia), la delicatezza della situazione in Medio Oriente richiederebbe molta cautela nei rapporti con gli amici, o quanto meno con quegli Stati (pochi) che ancora condividono finalità e strategie geopolitiche. O per dirla più semplicemente: con i Paesi che restano legati a doppio filo con l’America, nel bello o nel cattivo tempo, come fa appunto Israele. Allora, che cosa significa la reazione dell’Amministrazione Usa di fronte alle dimissioni di Netanyahu? Che cosa stanno a indicare voci che i collaboratori di Barack Obama “faranno di tutto” per appoggiare i suoi avversari e per far capire agli elettori israeliani che non è nel loro interesse rieleggere l’attuale premier? A nostro avviso, siamo di fronte a quello che nel lontano Occidente si esemplifica con l’espressione “ebreo buono”, “ebreo cattivo”. Il primo è quello che agisce secondo i desideri dei suoi (supposti) “amici”, è disposto a trattare e cedere tutto quello che gli si chiede di cedere; sorride sempre alle telecamere; non fa nulla per irritare gli alleati (per esempio annunciare la costruzione di alloggi in quartieri di Gerusalemme comunque destinati, in un futuro post trattato di pace, a rimanere in Israele); e piega la testa a ogni richiesta, per quanto irragionevole e capace di mettere in crisi la sicurezza dello Stato (come accettare di ritirare i soldati dalla Valle del Giordano con l’Isis sempre più vicino). Il secondo naturalmente è quello che fa il contrario di quanto appena esposto, risultando anche antipatico e “cocciuto” e in apparenza restio a “fare la pace con i palestinesi”. La realtà delle cose è però più complessa. Tanto è vero che Israele appare (segretamente) sempre più vicino a Paesi arabi quali l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e, naturalmente, l’Egitto di Sissi in funzione anti-islamisti radicali. Dunque qualcosa si muove, in Medio Oriente, e non sempre è negativo. Ma nel lontano Occidente il binocolo, chissà perché, è tenuto sempre al contrario. E chiunque sarà eletto a Gerusalemme, alla fine la domanda sarà sempre la stessa: ma sarà buono o cattivo?
(Il blog di Paolo Salom è sul sito www.mosaico-cem.it)