Cisgiordania: terza intifada?

Israele

 

Tra sabato e domenica, 23 e 24 febbraio, mentre gli italiani erano ( e saranno, fino a lunedì pomeriggio) impegnati nel voto che deciderà il prossimo governo; mentre gli ebrei di tutto il mondo festeggiavano Purim, in Cisgiordania si sono verificati violenti scontri fra palestinesi e soldati israeliani. Una violenza tale, che qualcuno già ha parlato di inizio di una terza intifada.
Gli scontri sono cominciati sabato e sono proseguiti per gran parte della domenica. A scatenare la violenza, la notizia della morte nel carcere di Megiddo, di un giovane palestinese di 30 anni, Arafat Jaradat.
La morte è avvenuta per cause non ancora accertate – secondo le perizie mediche, per torture; secondo il portavoce dei servizi della prigione, si è trattato di un attacco di cuore.

Dopo l’annuncio della morte di Jaradat, i palestinesi rinchiusi nel carcere di Ofer, in Cisgiordania, sono insorti; altri 4500 prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane hanno cominciato uno sciopero della fame. A Hebron, poi, manifestanti palestinesi si sono scontrati con le forze di sicurezza israeliane, nel corso delle manifestazioni che ogni anno, dal 2002, si svolgono per l’anniversario del massacro di Baruch Goldstein (anniversario che i coloni ricordano il 25 febbraio).

Il governo israeliano, secondo quanto riportato da Radio Israel, ha chiesto categoricamente dall’Autorità Palestinese di calmare i disordini Cisgiordania. Il primo ministro Netanyahu ha riferito anche di aver ordinato il trasferimento immediato nelle casse palestinesi, delle tasse raccolte il mese scorso per conto dell’Autorità Palestinese, in modo che questo argomento non possa essere usato come pretesto per il proseguimento dei disordini.

“La morte del prigioniero è il culmine di una situazione già tesa,” ha dichiarato a Maariv Kadoura Fares, ex ministro dell’Autorità Palestinese e capo del gruppo a cui apparteneva Jaradat. “Tutti gli incidenti rivelano una tendenza chiara, e cioè che siamo di fronte ad una intifada. I prigionieri in sciopero della fame, le manifestazioni tese, gli scontri violenti durante i quali vengono uccisi civili palestinesi, il processo di pace congelato – sono tutti fattori che indicano che siamo seduti su un barile di dinamite “.
Anche il leader palestinese Mustafa Barghouti teme una nuova intifada, ed ha aggiunto che in realtà gli scontri sono esplosi a causa di un altro incidente, quello verificatosi nel fine settimane nell’insediamento di Esh Kodesh, dove dei coloni israeliani avrebbero sparato contro un palestinese.

Ma siamo davvero di fronte all’inizio di una terza Intifada, come sostengono i palestinesi?
Chaim Levinson, su Haaretz di domenica 24 febbraio, sostiene che una risposta precisa a questa domanda sia ancora prematura. In generale, osserva che siamo di fronte ad una situazione di tensione dovuta a varie cause: la delusione per la mancanza di progressi diplomatici, la crisi finanziaria, i segnali di sgretolamento dell’Autorità palestinese da un lato e i successi di Hamas dall’altro. Proprio questa pluralità di cause, secondo Levinson, spingono a dire che la situazione di oggi è diversa da quella che portò alla prima intifada, nel 1987, e alla seconda, nel 2002.
Nel 1987, spiega Levinson, l’IDF controllava tutte le città palestinesi, ed era responsabile della gestione quotidiana di quelle città. “A quell’epoca, scrive, l’esercito doveva necessariamente difendere i coloni che si spostavano da un’insediamento ad un altro passando attraverso le città palestinesi; doveva proteggere gli edifici governativi circondati dalle masse arrabbiate, e allo stesso tempo fare il possibile per mantenere una parvenza di vita normale. Nella prima intifada l’IDF ha speso energie preziose nella lotta agli scioperi del commercio dei mercanti palestinesi e l’apertura o la chiusura delle università”.
Oggi, prosegue, la missione dei soldati israeliani è molto più chiara: l’esercito è impiegato per la protezione delle grandi arterie di traffico e degli insediamenti; ed ha il compito di prevenire attacchi di tipo terroristico. Le strade possono essere lunghe ma il compito dell’esercito è chiaro, e i manifestanti in generale devono essere allontanati.
L’altra differenza è che nell’1987 l’esercito non era preparato: “non era chiaro quale tattica, quale approccio adottare per affrontare e favorire la convivenza. Questa mancanza di preparazione e strategia fu ciò che, alla fine, provocò le violenze di quel periodo”. Oggi, scrive Levinson, l’esercito sa come gestire la situazione e si affida a soldati formati e preparati ad affrontare violenze come quelle di sabato e domenica. Certo, osserva ancora, non tutte le unità di riserva sono esperte nel trattare le proteste, ma i recenti disordini hanno dimostrato la capacità della polizia di confine e le unità regolari dell’IDF di gestire la situazione. “Soldati e poliziotti ricorrono abbondantemente ai gas lacrimogeni – che non sono piacevoli, ma nemmeno così terribili”, scrive ancora Levinson. Inoltre, aggiunge, i fotografi sono presenti a documentare quel che accade.
All’interno dell’DF comunque, secondo Levinson, si è dell’idea che il 2013 sarà un anno decisivo: o l’autorità palestinese, o il processo di pace, crolleranno. Nel frattempo, i coloni osservano. E anche questa è una novità rispetto al passato secondo Levinson. Se nella prima e seconda intifada davano ascolto a chi chiedeva un approccio duro contro i rivoltosi palestinesi, ora mantengono un atteggiamento più distaccato. Hanno capito, osserva sempre Levinson, che l’immagine della Giudea e della Samaria come di una Bosnia del Medioriente, danneggia i loro affari. Per ora quindi stanno a guardare, non premono, non fanno dichiarazioni. Ciò permette ai capi della difesa di prendere un pò di respiro. E proprio questo “spazio”, conclude Levinson, è quello che l’esercito si augura verrà utilizzato dalla diplomazia.

 

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