di Nathan Greppi
Il 7 ottobre 2023, il mondo è rimasto sconvolto nel vedere come la sicurezza dei confini israeliani sia stata facilmente violata dai terroristi di Hamas, nonostante tutte le tecnologie di cui dispongono le forze di difesa israeliane. Negli ultimi mesi, hanno cominciato ad emergere diversi scandali sul fatto che i vertici israeliani sapevano che Hamas stava tramando qualcosa, ma fino all’ultimo hanno sottovalutato la minaccia.
A questo punto, vale la pena di chiedersi come farà Israele a rialzarsi e a dimostrare di poter proteggere i propri cittadini. A tal proposito, Bet Magazine – Mosaico ha intervistato Yigal Carmon, presidente e fondatore del Middle East Media Research Institute (MEMRI). Già colonnello dell’Aman, il servizio di intelligence militare, è stato consigliere per l’antiterrorismo di due primi ministri israeliani, Yitzhak Shamir e Yitzhak Rabin.
Quali errori hanno commesso i servizi di intelligence il 7 ottobre?
Lo scorso 31 agosto, avevo scritto un articolo in cui avvertivo sul probabile scoppio di una guerra fra settembre e ottobre. Nessuno mi ha ascoltato, perché sono stati sottovalutati tutti i segnali. Negli ultimi dieci anni, Hamas ha ricevuto miliardi di dollari dal Qatar, con il permesso del primo ministro Bibi Netanyahu, che pensava così di comprare la tranquillità. Hamas però non combatte per il benessere economico, ma per una fanatica ideologia di stampo religioso. Con quei soldi, che Netanyahu ha lasciato entrare a Gaza in contanti, sono stati costruiti tunnel chilometrici, che costituiscono una trappola per i nostri soldati a Gaza.
I segnali però erano evidenti. Hamas non aveva nascosto la sua volontà di voler attaccare Israele. Ad agosto 2023, Saleh Al-Arouri, il leader dell’ufficio politico di Hamas, che è stato recentemente ucciso a Beirut, aveva detto che una guerra contro Israele stava arrivando. Inoltre, lo scorso settembre, Hamas aveva pubblicato il video di un addestramento, che prevedeva un attacco contro una base militare e un villaggio in territorio israeliano oltre al rapimento di soldati israeliani. Il governo ha però ha sottovalutato tutti questi segnali.
Il direttore dello Shin Bet, Ronen Bar, la sera del 6 ottobre era però rimasto a dormire in ufficio. Si era accorto che qualcosa stava accadendo, e aveva organizzato un meeting per la mattina del 7 ottobre. Ma era troppo tardi. I terroristi erano già entrati in territorio israeliano alle 6:30 del mattino.
Negli anni ’90, lei fu tra i pochi nella cerchia di Rabin ad opporsi agli Accordi di Oslo. A distanza di trent’anni, che cosa è andato storto nei negoziati con i palestinesi?
I fallimenti dei servizi segreti israeliani nella guerra dello Yom Kippur nel 1973 e dei servizi segreti americani l’11 settembre 2001 sono stati ampiamente discussi. Ma c’è stato un altro fallimento da parte della comunità dell’intelligence israeliana che merita attenzione: per oltre due anni dopo gli accordi di Oslo, firmati il 13 settembre 1993, i suoi esperti non sono riusciti a rilevare la minaccia rappresentata dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat. Il clima politico prevalente in Israele, durante i primi anni ’90, ha avuto un effetto negativo sulla valutazione della situazione da parte della comunità dell’intelligence israeliana, e da questi eventi si può trarre una lezione generale.
Le intenzioni di Arafat erano chiare fin dall’inizio. Firmò a Washington il 13 settembre 1993 la Dichiarazione di principi, conosciuta come Accordo di Oslo I, mentre indossava un’uniforme militare (aveva insistito anche per portare la pistola, ma aveva dovuto rinunciarvi); mentre la cerimonia era ancora in corso, fece mandare in onda su un canale televisivo giordano un suo discorso registrato, in cui spiegava che l’Accordo era solo una fase del Piano a stadi dell’OLP del 1974, che era una versione blanda della Carta dell’OLP: “Non dimenticate che il Consiglio Nazionale Palestinese ha approvato la risoluzione nel 1974. […] Questo è il momento del ritorno, il momento in cui alziamo la nostra bandiera sul primo pezzo di terra palestinese liberata. […] Questa è una fase importante, critica e fondamentale. Lunga vita alla Palestina, libera e araba!”.
Il 4 maggio del 1994 al Cairo, Arafat firmò con Israele l’accordo Gaza-Gerico, che trasferiva il controllo di Gaza e Gerico all’OLP. Sei giorni dopo, in un discorso in una moschea di Johannesburg, spiegò: “Considero questo accordo niente più che quello firmato tra il nostro profeta Mohammed e la tribù dei Quraysh”. L’accordo citato fu firmato dal profeta dell’Islam nel 628 d.C., in un momento in cui Maometto era militarmente debole ma, dopo essere diventato forte, uccise i membri della tribù dei Quraysh.
Nel 1993, essendo politicamente debole, Arafat si impegnò per iscritto a far sì che “l’OLP abbandoni l’uso del terrorismo e di altre attività violente”, ma in seguito venne meno al suo impegno. La retorica di Arafat e della leadership dell’OLP, che seguì la firma degli Accordi, dimostrò infatti che l’organizzazione continuava ad attenersi agli obiettivi originari dell’OLP, come definiti nel suo statuto, e all’utilizzo del terrorismo contro Israele.
Quando il governo israeliano firmò gli accordi di Oslo, presumeva che l’OLP avrebbe combattuto efficacemente Hamas e prevenuto gli attacchi terroristici contro gli israeliani. Tuttavia, un mese prima dell’ingresso dell’OLP a Gaza e Gerico, il primo ministro Yitzhak Rabin avvertì in un discorso alla Knesset del 18 aprile 1994: “Desidero chiarire che qualsiasi disposizione o accordo di fatto concluso dall’OLP con Hamas riguardo alla continuazione del terrorismo di Hamas, impedirà qualsiasi accordo (con Israele), così come la sua attuazione”. Si trattava in realtà di una direttiva rivolta alla comunità dei servizi segreti, affinché verificasse costantemente se esistesse un simile accordo tra l’OLP e Hamas, dal momento che il destino degli Accordi dipendeva da questa questione.
I segnali minacciosi furono chiari fin dall’inizio, non appena l’OLP entrò a Gaza e a Gerico. L’accordo Gaza-Gerico del maggio 1994 stabiliva: “A eccezione della polizia palestinese di cui al presente articolo e delle forze militari israeliane, nessun’altra forza armata potrà essere istituita od operare nella Striscia di Gaza o nell’area di Gerico”. Eppure, pochi giorni dopo, il comandante delle forze di sicurezza dell’OLP a Gerico, Jibril Rajoub, dichiarò: “L’accordo del Cairo non soddisfa le richieste minime del nostro popolo. Se c’è chi si oppone all’accordo, è libero di intensificare l’escalation armata. Per quanto riguarda le armi possedute a livello nazionale, cioè le armi detenute dalle fazioni nazionali e che sono puntate contro l’occupazione, noi le santifichiamo e ci riconciliamo con loro per responsabilità nazionale”.
All’epoca, la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana era favorevole agli accordi di Oslo, e gli analisti dell’intelligence israeliana non erano immuni a questo spirito dei tempi. L’errata interpretazione delle azioni di Arafat e del loro significato si era rafforzata anche a livello sociale. Coloro che sollevavano pubblicamente dubbi sulla leadership dell’OLP erano accusati di essere motivati solo dall’ideologia politica. Per molto tempo, l’opinione pubblica israeliana è arrivata al punto di giustificare il comportamento radicale dell’OLP e l’affiliazione al terrorismo, dicendo che “la pace si fa con i nemici”.
Mentre si accumulavano le prove che Arafat e il suo gruppo stavano violando gravemente gli Accordi, l’opinione pubblica israeliana era disposta ad accettare la bizzarra spiegazione secondo cui queste violazioni erano in realtà necessarie per il bene della pace. La logica era: Israele aveva firmato un accordo con Arafat, ma per attuare l’accordo Arafat deve sopravvivere politicamente tra il suo popolo, e per sopravvivere deve violare gli accordi. In altre parole, l’accordo tra Israele e l’OLP poteva essere attuato solo violandolo.
È importante che le agenzie di intelligence riconoscano che questo fallimento è avvenuto a causa dell’atmosfera sociale e politica dell’epoca. Ciò è particolarmente importante nell’era odierna dei social network, in cui l’opinione pubblica può essere influenzata piuttosto facilmente. Lo “spirito del tempo” pro-Accordi di Oslo dominava le università, la stampa, l’arena politica, gli ufficiali di alto livello in pensione e i funzionari della pubblica amministrazione. In alcuni ambienti prevaleva addirittura nelle conversazioni quotidiane tra amici.
Era difficile opporsi agli accordi, e questo ha avuto il suo effetto sul piccolo gruppo di analisti che, all’interno della comunità dell’intelligence israeliana, si occupava di questo argomento. Le loro opinioni personali hanno influenzato inconsciamente la loro interpretazione professionale, e forse alcuni di loro hanno anche temuto di compromettere una storica mossa governativa. Tali fallimenti professionali dovrebbero essere insegnati e studiati nelle scuole di intelligence.
Voglio aggiungere che io ho sostenuto il movimento delle Village Leagues, formato dai palestinesi dei villaggi che si opponevano all’OLP, con i quali sarebbe stato davvero possibile costruire la pace. Quello delle Village Leagues è un argomento importante, di cui spero si possa parlare più approfonditamente in futuro.
Come MEMRI, avete denunciato in particolare il ruolo del Qatar nel sostegno a Hamas.
Qual è il legame tra Doha e il movimento jihadista?
Il Qatar è Hamas e Hamas è il Qatar. Ognuno dei 30.000 – 40.000 terroristi di Hamas, ogni missile, ogni drone, ogni motocicletta, ogni arma, ogni proiettile, ogni munizione, ogni chilometro di tunnel a Gaza è stato finanziato dal denaro del Qatar. Negli ultimi dieci anni, Hamas ha infatti ricevuto da Doha miliardi di dollari, che sono serviti a costruire la forza militare del gruppo terroristico.
L’emittente qatariota, Al-Jazeera, è inoltre il megafono di Hamas. Mohammed Deif, il comandante della loro ala militare, ha dichiarato guerra a Israele proprio con un messaggio trasmesso e amplificato da Al-Jazeera in tutto il mondo arabo. Nel suo messaggio del 7 ottobre, Deif aveva chiamato tutti i palestinesi, sia in Cisgiordania che all’interno della stessa Israele, a unirsi alla guerra. “Alzatevi per sostenere la vostra Moschea di Al-Aqsa. Espellete le forze di occupazione e i coloni (termine utilizzato da Hamas per descrivere tutti i civili israeliani, non solo quelli negli insediamenti) dalla vostra Gerusalemme, e distruggete i muri di separazione”, aveva detto Deif. Il comandante di Hamas aveva poi detto alla popolazione araba “nella Palestina occupata” di “dare fuoco alla terra che sta sotto i piedi dei saccheggiatori occupanti. Uccidete, bruciate, distruggete e chiudete le strade!”.
Pertanto, il Qatar non può essere un “onesto intermediario”, come invece ha dichiarato sul Wall Street Journal l’ambasciatore qatariota negli Stati Uniti, Meshal bin Hamad Al Thani. Il ricco emirato sostiene infatti tutte le organizzazioni terroristiche islamiste, quali l’ISIS, Al-Qaeda, i talebani e Hamas. Nel 1996 nascose a Doha Khalid Sheikh Mohammed (KSM), diventato la mente dell’11 settembre. Quando l’FBI venne ad arrestarlo, informando anticipatamente soltanto l’emiro, KSM scomparve nel giro di poche ore.
In un articolo del 2017 Richard Clarke, consigliere per l’antiterrorismo dei presidenti americani Bill Clinton e George H. W. Bush, ha scritto: “È vero che il Qatar è servito da rifugio per i leader di gruppi che gli Stati Uniti o altri Paesi considerano organizzazioni terroristiche. Ciò va avanti da almeno 20 anni. […] Se il Qatar ci avesse dato KSM, il mondo adesso sarebbe un luogo diverso”.
I sauditi hanno recentemente espresso il loro desiderio di riprendere i negoziati con Israele, a patto che nasca uno Stato palestinese. Che impatto avrà questa guerra sui rapporti tra Israele e i paesi arabi con cui ha stipulato accordi di pace? E quali probabilità ci sono, nel lungo periodo, di un accordo con l’Arabia Saudita?
Per adesso, i paesi arabi che hanno firmato gli Accordi di Abramo (Marocco, Sudan, Emirati Arabi Uniti e Bahrein) stanno cercando di mitigare la polarizzazione dell’opinione pubblica, mantenendo però saldi i legami con Israele. La posizione dell’opinione pubblica nel mondo arabo rende però difficile per l’Arabia Saudita firmare un accordo con Israele. Ricordiamo però che molti dei missili lanciati dagli Houthi in Yemen contro Israele sono stati fermati da Riad.
Cosa dovrebbero fare i servizi di sicurezza israeliani per impedire che si verifichi un altro 7 ottobre? Quale lezione dovrebbero trarre?
Dobbiamo smettere di pensare che il Qatar possa essere un mediatore, e ricordare che è un nostro nemico. Israele infatti non può uccidere tutti i 40.000 terroristi di Hamas. Se ne rimanessero in vita anche solo 500, vorrebbe dire che il movimento terroristico è ancora in piedi e che controlla la popolazione. Finire Hamas significa eliminare la sua fonte di sostentamento, cioè il Qatar. Per Hamas, il Qatar è la sua ancora di salvezza, la speranza, il futuro e la continuazione della lotta per sradicare Israele e uccidere tutti gli ebrei, come stabilito nello statuto del movimento terroristico.
L’Iran ha fornito l’addestramento, ma i finanziamenti vengono dal Qatar, dove vivono da intoccabili gli stessi leader di Hamas. Senza quei miliardi di dollari, Hamas non può sopravvivere a lungo. Per togliere l’ossigeno a Hamas è necessario rimuovere la minaccia del Qatar, che sia con sanzioni economiche, operazioni di hackeraggio o altri modi.
Per quanto riguarda la mediazione del conflitto, possiamo ritornare all’Egitto. Sicuramente anche Il Cairo ha le sue problematiche ma, a differenza del Qatar, ha firmato una pace con Israele e considera i Fratelli Musulmani, dei quali Hamas è una costola, una minaccia al proprio regime.