di Aldo Baquis, da Tel Aviv
Le corti rabbiniche del mondo haredì si oppongono al lockdown imposto dal governo israeliano: se la chiusura delle sinagoghe rischia di allontanare i giovani dall’osservanza, “la cura della loro anima prevale sulla salvaguardia della salute fisica”, dicono.
E anche se i contagi aumentano, i rabbini contano sull’immunità di gregge
La distanza maturata fra le strutture laiche di Israele e la minoranza degli ebrei haredìm non è mai stata così palese come nelle drammatiche giornate del lockdown per il coronavirus, iniziate alla fine di settembre e proseguite durante le ricorrenze di Rosh ha-Shanà, Kippur e Simchat Torah. Dal ministero della sanità giungevano bollettini “di guerra”: 6.000, poi 8.000 e quindi anche 9.000 contagi al giorno. Quindici per cento di infezioni: un record mondiale, in proporzione alla popolazione. Decine di decessi al giorno: dai 1350 di fine settembre, si era giunti a 1900 solo due settimane dopo. Ospedali al limite della capacità di intervento. Dipartimenti di coronavirus aperti all’inizio della settimana, che dopo alcuni giorni erano già stracolmi. Personale medico esausto e traumatizzato per le tragedie quotidiane che doveva affrontare.
In queste circostanze il governo si è visto costretto ad imporre uno stretto lockdown nazionale. Nel mondo occidentale, Israele era il primo Paese a ricorrere per la seconda volta in pochi mesi ad una misura talmente drastica, e dalle ripercussioni dirompenti per l’economia e per diversi strati sociali.
Nel tentativo di aggiudicarsi la massima cooperazione, le autorità sanitarie hanno dovuto superare la resistenza della minoranza araba (là matrimoni affollati avevano contribuito ad accrescere i contagi) e mettere redini alle proteste di piazza dei contestatori di Benyamin Netanyahu (costretti da un decreto speciale a ridurre le dimensioni delle manifestazioni).
Quando si è giunti alla necessità di chiudere le sinagoghe e di passare a preghiere all’aria aperta, gli ebrei osservanti nazional-religiosi e gli ebrei ortodossi sefarditi – molto a malincuore – hanno in genere accettato le limitazioni richieste dal governo.
Molto diversa la situazione che si è creata in località popolate in maggioranza da ebrei ultraortodossi ashkenaziti: Bnei Brak (alle porte di Tel Aviv), Mea Shearim (Gerusalemme), Elad, Beitar Illit, Modiin Illit, alcuni rioni di Ashdod e di Rehovot.
Diverse centinaia di migliaia di persone che, in questi frangenti drammatici per il Paese, hanno freddamente intrapreso la via della disobbedienza civile. Malgrado agli israeliani fosse vietato ogni genere di assembramento e non potessero trovarsi più di venti nello stesso spazio chiuso, rabbini hassidici hanno convocato migliaia di seguaci per presenziare al “tisch”, il tavolo imbandito del loro maestro. Ad Ashdod, al funerale di un importante rabbino (l’Admor di Pittsburgh) morto di coronavirus, la polizia aveva concesso la partecipazione di 60 persone distanziate fra di loro. Se ne sono accalcate invece 2500. Fra di loro spiccava l’ex ministro della sanità, il rabbino Yaakov Litzman, leader di un partito ortodosso che sostiene Netanyahu ed esponente della potente “setta” dei Gur.
I rabbini di corti rabbiniche con radici nell’Europa dell’Est (Vishnitz, Ponivezh, Belz, Breslav e altri ancora) hanno dato istruzione di proseguire con le preghiere nelle sinagoghe, anche a costo di scontri con la polizia. Giornalisti che hanno tentato di documentare queste infrazioni di massa sono stati scacciati e in alcuni casi malmenati. Agenti inviati a disperdere assembramenti sono stati accolti da grida “Nazisti, Hitler” e dagli sputi provocatori di bambini. La polizia ha presto compreso che nei rioni omogenei degli ebrei ashkenaziti non c’era modo di far rispettare le regole. Ogni sinagoga chiusa veniva subito riaperta all’uscita dell’ultimo agente.
I dati della pandemia in Israele
Ad accrescere lo sbigottimento dei responsabili alla sanità c’erano anche le cifre dei contagi. Secondo l’Istituto Weizmann, a luglio, all’inizio della seconda ondata di coronavirus, fra i nuovi casi positivi il 20 per cento erano arabi, il 34 per cento ultraortodossi e il 46 per cento il resto degli abitanti di Israele. Verso la metà di ottobre la proporzione degli arabi era calata all’8 per cento, mentre quella degli haredim era salita al 47 per cento. Anche nelle corsie degli ospedali la percentuale dei degenti ultraortodossi era molto superiore al loro peso nella popolazione, stimato nel 10-12 per cento. Così pure per i decessi. Come spiegare un atteggiamento in apparenza così autolesionista?
In una intervista al giornale Hamahane Haharedi, organo della corte rabbinica dei Belz, il rabbino Pinchas Friedman ha spiegato l’approccio del suo maestro, il rabbino Yissachar Rokach. È vero, ha ammesso, che la dottrina insegna che la vita va preservata a tutti i costi. Ma occorre anche fare una distinzione: c’è la protezione del corpo fisico – ha spiegato – e quella dello spirito. Nel primo lockdown è stato notato che con la chiusura dei collegi rabbinici molti studenti erano rimasti disorientati, si erano perduti per strada. Un fenomeno che desta apprensione nei vertici rabbinici. Secondo dati raccolti dall’Istituto israeliano per la democrazia nel 2017 il 15 per cento dei giovani haredim di età compresa fra 20-24 anni (per lo più sefarditi, ma anche membri di corti hassidiche) hanno abbandonato lo stile di vita prettamente ortodosso, pur restando osservanti a tutti gli effetti. Una delle spiegazioni è che volevano aprirsi alla società, e non essere più condannati ad una vita di povertà. Una emorragia in atto da tempo, che l’establishment ultraortodosso cerca di arrestare.
Quando c’è “un pericolo certo per l’anima, di fronte ad un pericolo possibile per il corpo”, ha proseguito il rabbino Pichas Friedman, occorre dare la precedenza al sostegno dell’anima. Composta da famiglie numerose, la società haredì è relativamente giovane. La sensazione diffusa è che sia dunque meno esposta ai pericoli del coronavirus. Alcuni hanno anche espresso la convinzione che essa sarebbe in grado di realizzare una “immunità di gregge”.
Quando emissari del governo hanno cercato di persuadere la comunità ultraortodossa a rispettare i limiti del lockdown, hanno scoperto che, dopo la scomparsa di due grandi leader – il rabbino Menachem Eleazar Shach e il suo successore, Aharon Leib Steineman – la struttura di potere si è frammentata.
Non esiste più un unico interlocutore. Ciascuna corte rabbinica ha cominciato ad agire in maniera autonoma, amplificando i rispettivi messaggi mediante le reti sociali. Secondo uno studioso del mondo rabbinico, il dott. Avishay Ben Haim, fra gli ultraortodossi sefarditi e quelli ashkenaziti c’è un forte divario. I primi, sulla scia degli insegnamenti del conciliante rabbino Ovadia Yossef, cercano di non perdere mai i contatti con il resto della società israeliana. Quelli ashkenaziti invece, a suo parere, elevano attorno a sé mura alte di difesa dal mondo esterno. “Vogliono restare – sostiene – un ‘Pach shemen tahor’, una lattina di olio assolutamente puro”. Se ciò comporta scontri con la polizia, il compattamento di quella società ne risulta rafforzato. Si crea allora un ethos di dedizione senza compromessi alla Torà, un confronto epico con il mondo esterno.
In passato tutti i governi israeliani hanno garantito al mondo ultraortodosso ampi spazi di autonomia. Fra questi, la esenzione di massa dal servizio militare e la gestione di una vasta rete di istituti educativi che da un lato viene sostenuta da finanziamenti statali, ma dall’altro è esente (di fatto) da controlli sui contenuti. La richiesta che al loro interno si insegnino materie di utilità per l’inserimento nella società moderna (fra cui matematica, inglese, educazione civica) resta spesso ignorata. Di conseguenza ampi settori degli ebrei haredim si trovano relegati ai margini della società. Tutto ciò rischia di aggravarsi ulteriormente nei prossimi decenni quando (ogni coppia di ebrei ultraortodossi ha mediamente sette figli) la loro percentuale nello Stato di Israele sarà ancora più marcata.
In questo senso, la crisi del coronavirus potrebbe avere anche un risvolto positivo: ossia potrebbe indurre i responsabili di governo a elaborare un nuovo patto sociale con la comunità haredì che da un lato assicuri che nessun attacco venga sferrato alla sua identità e al suo stile di vita, ma che dall’altro sventi il rischio che essa diventi un peso insopportabile per il resto del Paese.
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