di Luciano Assin
«Tutti hanno diritto a 15 minuti di celebrità»: la frase attribuita a Andy Warhol è sempre più attuale, visti i continui programmi di reality coi quali siamo bombardati quotidianamente appena accendiamo il televisore. Ma Ahmad Surbagi, 23 anni, proveniente dalla città di Um el Fahem, il suo quarto d’ora di celebrità se lo è letteralmente guadagnato sul campo, visto che è il primo arabo israeliano arruolatosi nelle file del Dahish (Isil, o Isis per gli occidentali), riuscito a tornare in Israele dopo un periodo di addestramento e combattimenti della durata di tre mesi. Non è la prima volta che arabi israeliani si sono trovati coinvolti nei conflitti che insanguinano la regione mediorientale.
La storia di Surbagi è sconcertante per la facilità con cui la visione di alcuni video su youtube – e vari collegamenti su Facebook – possano portare ragazzi normali a trasformarsi in paladini dell’Islam più per spirito di avventura che non per fanatismo religioso. L’altra faccia della medaglia consiste nella capillarità dei servizi di sicurezza israeliani in grado, almeno per il momento, di percepire quasi sul nascere fenomeni di questo genere.
Il quotidiano Yedioth haAhronot ha appena pubblicato le trascrizioni degli interrogatori svoltisi subito dopo il suo ritorno in patria. Dai tabulati risulta che Ahmad era stato messo in guardia da un agente dello Shin Bet su un suo probabile arruolamento nelle file delle milizie islamiche. Durante il colloquio i servizi di sicurezza israeliani gli avevano esplicitamente fatto capire di essere stato tenuto sotto controllo, soprattutto in base alle continue visite su pagine Facebook vicine all’Isil e ai post da lui pubblicati sull’argomento.
Ma per Ahmad il richiamo dell’avventura e della fede sono troppo forti; sei mesi dopo l’avvertimento ricevuto, lascia la famiglia, ancora all’oscuro di quello che sta accadendo, e si imbarca su un volo diretto ad Istanbul, uno di quei charter tanto cari agli israeliani, sempre in cerca di una buona occasione per trascorrere qualche giorno di vacanza all’estero. In Turchia, il nostro eroe aspetta l’arrivo di altri tre conoscenti fra cui Rebi’a Shehada, soprannominato “lo sgozzatore della Palestina”.
Dopo un paio di giorni ad Istanbul, i quattro si dirigono verso il confine con la Siria, che attraversano con l’aiuto di un contrabbandiere in cambio di cento dollari. Lo sconfinamento avviene senza alcun intoppo e dopo un quarto d’ora di cammino il gruppetto incontra ad aspettarli il contatto della milizia islamica. Dopo un breve periodo di addestramento della durata di una settimana, che comprendeva l’uso del Kalashnikov, lancio di granate e lezioni teoriche sul RPG, un famoso razzo lanciagranate anticarro di produzione sovietica, passano alla tappa successiva.
Dopo questa infarinatura militare Surbagi viene impiegato soprattutto per compiti di guardia nella base dove è dislocato, in un paio di occasioni viene impegnato in combattimenti contro le forze siriane. La crudele realtà dei combattimenti e il comportamento non proprio impeccabile dei suoi compagni di lotta comincia a creare qualche dubbio sulla validità della sua scelta. La via del ritorno è ormai solo questione di tempo. Dopo un periodo di tre mesi in terra siriana, Ahmed si rivolge ai suoi superiori facendo presente la sua necessità di tornare in patria per accudire la mamma gravemente malata. Inaspettatamente la richiesta viene accettata senza particolari problemi, nonostante fosse chiaro a tutti la sua provenienza israeliana.
Surbagi si era messo in contatto coi servizi di sicurezza israeliani quando era ancora in territorio siriano; una volta riattraversata la frontiera Turca viene fornito di un lasciapassare israeliano e arrestato appena atterrato a Tel Aviv.
L’avventura siriana si è conclusa in definitiva in maniera soddisfacente, almeno dal punto di vista dell’aspirante combattente. Dopo una serie di interrogatori, Surbagi è stato condannato a 22 mesi di detenzione, molto al di sotto delle aspettative della Procura che aveva richiesto una pena esemplare di divesi anni di carcere. Una pena mite e senz’altro molta fortuna, visto che uno dei componenti del gruppo è rimasto ucciso nei combattimenti e le notizie dei due compagni d’avventura non sono chiare.
Il fenomeno dell’Isil in Israele è per il momento molto limitato: si parla di una quarantina di persone operanti in Siria, cifra irrisoria per una minoranza di un milione e mezzo di arabi israeliani. Lior Akerman, ex dirigente dello Shabak, afferma quello che è chiaro alla maggior parte della leadership israeliana: oltre l’ottantacinque per cento della popolazione araba ha ben altro a cui pensare, occupazione, educazione e benessere sono le principali preoccupazioni e queste sono le tematiche sulle quali agire per rafforzare il terreno sociale e la relazione con lo Stato di Israele.
Al di là di questo rapporto problematico ed irrisolto all’interno del Paese, la verità è che Israele è un partecipante molto marginale agli enormi cambiamenti in corso. La geografia, i rapporti etnici e religiosi all’interno dell’Islam sono in continuo cambiamento, la lotta aperta fra sciiti e sunniti è una vera e propria guerra di religione che insanguinerà la regione per ancora molto tempo; è un conflitto irrisolto dal momento stesso nel quale è nata la frattura religiosa fra queste due entità, quasi 1400 anni fa. A noi non resta altro che non abbassare la guardia e cercare di entrare il più possibile nella logica dei contendenti. Una logica assolutamente estranea ai concetti occidentali. Qui il tempo, la vita umana e il destino hanno un altro valore. Prima ce ne rendiamo conto e meglio sarà.