Diario minimo (di un conflitto). Sinwar. Un anno dopo

Israele

di Luciano Assin
Inauguriamo una nuova rubrica periodica tenuta da Luciano Assin, milanese abitante da decenni nel kibbutz Sasa, al confine con il Libano, che ci racconta ‘dal di dentro’ come si vive in Israele in questi tempi di guerra.

 

Chiamatelo Karma, destino ineluttabile, fortunata coincidenza, il fatto è che l’uccisione di Sinwar è avvenuta leggermente un anno dopo o appena qualche giorno prima del pogrom dell’anno scorso. La discrepanza è legata alla sfasatura esistente fra il calendario Gregoriano e quello ebraico.

L’ideatore della mattanza del 7 ottobre 2023 si è simbolicamente ricongiunto con una lunga serie di personaggi che avevano fatto della distruzione d’Israele la loro ragione di vita. Di tutti i leaders palestinesi che si sono succeduti dal XX secolo in poi è senza dubbio quello che ha portato più dolore e sofferenza al suo stesso popolo.

Il “macellaio di Han Younes”, soprannome affibbiatogli dai suoi fratelli palestinesi, è l’autore diretto o indiretto dell‘omicidio di decine di palestinesi sospettati di collaborazionismo con Israele. Nella maggior parte dei casi si è trattato di esecuzioni sommarie senza alcun processo o prova.

Di lui si ricordano bene gli agenti dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, che lo interrogarono verso la fine degli anni ’80: “Senza nessun rimorso si prese la responsabilità della punizione inflitta a un sospetto informatore. Convocò il fratello dell’uomo, un membro di Hamas, e lo costrinse a seppellirlo vivo buttandogli addosso terra e terra fino a che non morì soffocato. Questo è Yahya Sinwar”. E nonostante questa scia di sangue che si era lasciato dietro il governo israeliano, nel 2008, lo curò da un tumore al cervello, salvandolo da una morte certa.

Liberato nel 2011 in seguito all’accordo Shalit, Sinwar divenne capo di Hamas nel 2018. Nella seguente intervista, pubblicata nello stesso anno, Sinwar si rivelò molto ambiguo, emulando in questo senso il suo precedessore Arafat, mentre di fatto i preparativi per l’invasione di Israele erano già in atto.

La scelta del futuro leader di Hamas sarà il primo segnale sulle intenzioni del movimento islamista: continuare la lotta armata o privilegiare una scelta più pragmatica? I nomi dei papabili successori  non registrano nessun personaggio di spicco, compreso il fratello, e bisogna tener presente quanto l’influenza iraniana possa essere determinante nella nomina.

Cinquantun anni fa, dopo la guerra del Kippur, Sadat si convinse che l’opzione militare era impraticabile e scelse di percorrere la strada della pace. Grazie alla guerra appena conclusa, che agli occhi degli egiziani apparve come una vittoria, il rais egiziano aveva un così forte consenso popolare che gli permise di essere il primo stato arabo a firmare un trattato di pace con Israele. Attualmente non vedo nessun leader palestinese in grado di percorrere lo stesso percorso. Anche l’attuale governo israeliano non promette niente di buono al proposito. Nel migliore dei casi si potrà arrivare ad una soluzione di non belligeranza.

Anche in questo caso la strada da percorrere sarà lunga e piena di ostacoli di non poco conto: ritorno immediato degli ostaggi, piena smilitarizzazione della striscia di Gaza, riforma strutturale dei programmi educativi, libera circolazione per l’IDF compreso il controllo del valico di Raffah e smantellamento dell’UNRWA.

Chi si accollerà l’onore/onere della ricostruzione (una forza inreraraba?) dovrà avere delle straordinarie doti da equilibrista per riuscire a soddisfare entrambi i contendenti. La carota (i proventi economici legati alla ricostruzione della striscia) dovrà essere inevitabilmente più attraente del bastone (gli inevitabili disordini legati alla prima fase di assestamento).

Se veramente la maggior parte della popolazione di Gaza è pacifica ma era succube di una dittatura islamica, come molti sostengono, questo è il momento di dimostrare la loro buonafede. Crogiolarsi nell’odio e nella vendetta non farà che alimentare per altri decenni questa spirale di violenza a prima vista senza fine.