di Aldo Baquis
Gerusalemme, autunno 2014. Un palestinese alla guida di una vettura travolge alcuni passanti ebrei alla fermata della ferrovia leggera. Restano uccise una neonata e una ragazza sudamericana. L’assassino stesso è poi abbattuto dal fuoco della polizia. Poche ore dopo, sul web, appare un’immagine molto significativa, che mostra i pedali di un’automobile. Quello dell’acceleratore è rimpiazzato dal caricatore di un Kalashnikov, con due proiettili sul tappetino: uno per ogni vittima prescelta. L’immagine – che raccoglierà grande successo nei siti web palestinesi – manda a dire che è giunto il momento di trasformare le proprie utilitarie in armi di lotta contro Israele. Di fronte a questo genere di attacchi, i servizi di sicurezza sono impreparati e disorientati. È il 23 ottobre 2014. Così inizia la “intifada delle automobili”, che nelle settimane successive avrà altri emuli. Ma è anche la “intifada delle vignette”, un diluvio di immagini che hanno intasato i social network.
La scelta di pungenti immagini grafiche ben si accompagna allo sviluppo sul web. Consente reazioni immediate, a caldo. Permette di tastare il polso delle parti in conflitto, in pochi minuti rimbalza fra migliaia di persone. Ora compare in un sito, poco dopo rimbalza su un altro e diventa virale in un attimo. Supera, per impatto, la classica vignetta del quotidiano su carta, che appare lenta e sorpassata dagli eventi. A volte ci si imbatte anche in soluzioni umoristiche, ma i luoghi comuni si sprecano. La cosiddetta “colomba della pace” è riproposta in tutte le salse da disegnatori di poca fantasia. Nei momenti di conflitto, viene “sacrificata” regolarmente dalle loro matite: bollita in una pentola, crocifissa, investita da un automezzo, o strapazzata da questo o quel leader. Difficilmente all’indomani ci ricorderemo vignette del genere.
Molto più spesso invece c’è l’incitamento di bassa lega, con ricorso al solito armamentario antisemita di stereotipi. E così, sul web di parte araba, gli israeliani di oggi appaiono simili ai loro bisnonni stigmatizzati nei disegni del periodo hitleriano, gobbi, con palandrane nere, riccioli al vento e nasi adunchi. Chi vuole strafare, li mostra anche mentre si spostano impugnando una Menorah, o intrisi di sangue arabo.
Altre vignette raccontano gli israeliani nelle vesti di animali ripugnanti: vanno forte i serpenti e le piovre, ma si esibiscono anche talpe o roditori di altro genere. Un disegnatore graficamente più sofisticato ha elaborato una vignetta in cui tante piccole Menorot nere si trasformano in cornacchie svolazzanti sulla moschea al-Aqsa.
Ci sono anche rare perle di satira: quando cioè si cerca di ridere su se stessi. In questo campo i disegnatori arabi amano lanciare i propri strali sui propri dirigenti politici: ad esempio, il presidente palestinese Abu Mazen (mostrato come un corrotto, che si sazia degli aiuti destinati al suo popolo) o il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sissi, rappresentato come un pappagallo un po’ rintronato, di scarsa fantasia. Ma che dire allora dei predicatori islamici estremisti ? Lì i disegnatori avvertono di essere in terreno minato. Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi. Difficile trovare chi ardisca irridere i dirigenti di Hamas. Anche un autorevole disegnatore dell’Olp che in passato aveva mostrato Ismail Haniyeh (Hamas) come un grande scimmione, ora preferisce esercitarsi su Netanyahu e sulla Barriera di separazione. In Israele i giornali ospitano la consueta vignetta quotidiana che talvolta riesce anche a sollevare polemiche. È capitato ad Amos Biderman (Haaretz) quando, sintetizzando gli attacchi sgarbati lanciati da ministri israeliani verso il presidente Obama, ha disegnato un aereo pilotato da Netanyahu mentre punta verso una delle Torri Gemelle, prossimo al suicidio. Israele come al-Qaida? Negli Usa il disegno ha destato clamore, e il giornale è stato costretto a spiegarsi meglio.
Se una volta in Israele la satira politica era appanaggio di matite di sinistra, adesso compare con crescente vivacità anche un umorismo di stampo nazional-religioso che si sforza di graffiare il “politically correct”. Su una Spianata delle Moschee, accanto ad una folla di fedeli islamici genuflessi c’è anche un israeliano. È Srulik: il personaggio con i sandali da kibbutznik, il ricciolo ribelle e il classico “Kova-Tembel” in testa, ideato da Dosh all’epoca eroica della Guerra dei sei giorni. Ma anche Srulik ormai ha perso l’eroismo che lo distingueva. Ora è genuflesso anche lui: davanti ad uno “Status quo” che vieta agli ebrei di pregare in quel luogo. Nel firmamento della satira politica per il Medio Oriente è comunque una rivista francese, Charlie Hebdo, quella che ha meglio saputo cogliere l’orrore dello Stato Islamico e disinnescarlo con disegni impietosi. Un giornale coraggioso, “che lotta contro le due grandi religioni del nostro secolo: il pregiudizio e la stupidità”, e non a caso, tre anni, fa la sua redazione è stata incendiata da estremisti islamici.
Il terrorista dell’Isis che prende la temperatura al suo ostaggio, prima di tagliargli la gola, per verificare prudentemente che non sia affetto da ebola è un esercizio di bravura poetica. Charlie Hebdo è un raggio di luce per chi crede nella caricatura politica come strumento di liberazione dal fanatismo e dalla violenza. Ma come tanti altri giornali ha anch’esso l’acqua alla gola, e potrebbe avere i giorni contati. «Di sicuro – osserva un suo disegnatore – non riceveremo aiuti di emergenza dal Qatar», uno Stato che finanzia Hamas ed altri integralisti armati.
(Twitter: @aldbaq)