di Avi Shalom, da Tel Aviv
Economia – energia: gli effetti virtuosi degli Accordi di Abramo. Israele e Giordania firmano a Dubai un accordo che prevede la costruzione nel Regno hashemita – da parte di una società degli Emirati e con il sostegno degli Stati Uniti – di una mega centrale di energia solare. Scambio di favori tra la Giordania assetata e Israele affamato di chilowatt
Il Medio Oriente sta gradualmente affacciandosi verso una nuova realtà grazie agli Accordi di Abramo. Anche se i loro ideatori – Donald Trump e Benyamin Netanyahu – non sono più al potere, e anche se la amministrazione Biden resta molto tiepida nei loro confronti, la logica economica di quelle intese sta mettendo radici e uno dei primi risultati è la firma, alla fine di novembre a Dubai, di un importante memorandum di intesa fra Israele e Giordania, reso possibile da un intervento massiccio degli Emirati Arabi Uniti. Il progetto – che deve essere ancora convalidato dai rispettivi vertici politici – prevede la fornitura di corrente elettrica dalla Giordania verso Israele (prodotta in una vasta stazione di energia solare) in cambio di acqua marina desalinizzata da Israele a beneficio dell’assetato Regno hashemita. In sostanza, un accordo strategico senza precedenti fra i due Paesi, che va ad aggiungersi alle forniture di gas naturale da Israele alla Giordania.
Una spinta da Glasgow
Una spinta aggiuntiva è arrivata dal vertice di Glasgow sulla difesa globale dell’ambiente. Israele era presente con una delegazione di notevoli dimensioni che si è assunta impegni importanti da realizzare nei prossimi tre decenni. Fra questi, la transizione graduale verso l’energia “verde”, in particolare quella solare.
In Israele, su questo tema, le idee e le conoscenze tecniche non mancano. I pannelli solari sui tetti delle case e anche sui pollai sono sempre più diffusi. Ma il Paese deve confrontarsi con assillanti limiti geografici. Da qui l’idea di sfruttare la profondità territoriale della Giordania.
A sud di Beer Sheva, nel Negev settetrionale, è in fase avanzata di rodaggio la stazione solare di Ashalim. La località è stata scelta perché situata in un’area arida dove le precipitazioni annue non superano i 100 millimetri di pioggia (nel 2021 ne sono caduti 20). Nella cosiddetta “Valle solare” ci sono tre stazioni che, con tecnologie diverse, saranno in grado di produrre al massimo 370 megawatt all’ora. Ma solo nelle ore diurne. Di notte la produzione cessa del tutto. Un altro limite riguarda la distanza fra il Negev e la zona industriale del Paese, concentrata nell’area centrale. Nel Negev creare peraltro stazioni ancora più estese non è facile perché occorre misurarsi con le necessità prioritarie dell’esercito (che ha là le sue basi e le sue aree di esercitazione), con i parchi della Società per la protezione della natura, nonché con le zone agricole e industriali.
Diversamente da Israele, nel territorio giordano gli spazi a disposizione sono molto più vasti. Con finanziamenti degli Emirati per 700 milioni di dollari, in Giordania sarà allora costruita una stazione di energia solare che produrrà 1200-1300 megawatt, metà dei quali destinati ad essere conservati. La fase iniziale del progetto avrà luogo nel 2026 e nel 2030, secondo questi piani, la Giordania assicurerà l’8 per cento del fabbisogno israeliano di energia elettrica. Contribuirà inoltre a ridurre l’inquinamento ambientale, appunto nella visione enunciata nella conferenza di Glasgow.
Superare le ostilità e la sfiducia
Ma gli anni di Netanyahu hanno lasciato il segno in Giordania, dove ancora si avverte un forte senso di antagonismo popolare verso Israele. Già due anni fa, con l’accordo per le forniture di gas naturale dalla piattaforma Leviathan situata in mare a sud di Haifa, nel parlamento di Amman ci furono elevate proteste. Memore di quelle tensioni il governo giordano ha condizionato adesso l’accordo sulle forniture a Israele di energia solare a una intesa sull’approvigionamento di acqua desalinizzata a beneficio del popolo giordano.
La crisi climatica – viene osservato in Israele – può anche avere riflessi geopolitici. La sete può essere un fattore destabilizzante. A fine novembre le forze di sicurezza iraniane hanno soppresso con forza manifestazioni di protesta divampate nel loro territorio per la penuria di acqua. Similmente in Giordania c’è forte malcontento per una crisi idrica ormai endemica. Israele ha tutto l’interesse a garantire la stabilità del Regno hashemita, con cui spartisce il suo confine più lungo, dal lago di Tiberiade fino al mar Rosso. Anche da qui la disponibilità israeliana ad alleviare la penuria di acqua nel Paese vicino.
Il fabbisogno nazionale della Giordania è stimato in 400 milioni di metri cubici all’anno. In virtù degli accordi di pace Israele fornisce già annualmente 55 milioni di acqua, proveniente dal lago di Tiberiade. Quest’anno ha accettato di vendere altri 50 milioni di metri cubici. In base alle intese raggiunte a Dubai, Israele prevede adesso di desalinizzare acqua marina in un nuovo impianto concepito su misura per le necessità giordane. Le forniture previste sono nell’ordine di 200 milioni di metri cubici. Si tratta di un investimento da 2,5 miliardi di dollari, secondo il settimanale economico The Marker. Inoltre la sua costruzione richiederebbe anni. Ma la Giordania ha sete subito, non può aspettare così a lungo. Inoltre il litorale marino di Israele è limitato ed è già sfruttato quasi a pieno. Di conseguenza Israele potrebbe vedersi costretto, piuttosto che costruire un nuovo impianto di desalinizzazione, ad accrescere la produzione di acqua dagli impianti già esistenti.
Anche così per i dirigenti giordani la questione immediata è come far “trangugiare” alla opinione pubblica locale, piuttosto avversa ad Israele, un nuovo accordo di tale portata.
Il primo a dare un segnale è stato re Abdallah che – dopo aver congelato negli ultimi anni i rapporti personali con Netanyahu – di recente ha ricevuto invece il suo successore Naftali Bennett, il capo dello Stato Isaac Herzog e anche il ministro della difesa Benny Gantz. I vertici politici vogliono dunque una distensione (anche se di volta in volta in volta incidenti a Gerusalemme e nella Spianata delle Moschee riaccendono gli animi). Invece nelle strade di Amman si sono susseguite manifestazioni di protesta contro l’accordo “energia in cambio di acqua”. Un importante caricaturista giordano, Emad Hajjaj, ha visualizzato le forniture israeliane di acqua come altrettante bombe lanciate sulla testa dei giordani.
Da un lato, appaiono adesso nuove prospettive di benessere economico preannunciate dagli accordi di Abramo. Dall’altro però la retorica nazionalista dei vecchi tempi è dura a morire. Il Medio Oriente – come si dice fin troppo spesso – è a un bivio: può procedere lungo ciascuna delle due direttive e in quest’area non c’è determinismo. Se l’accordo “energia-acqua” è stato favorito dalla rimozione dal potere di Netanyahu (uno sviluppo che non ha niente a che vedere con la crisi energetica regionale) allo stesso modo le stesse intese potrebbero ancora arenarsi a causa di altri eventi esterni. In primo luogo, le frizioni legate a Gerusalemme e alla crisi palestinese. Ne sa qualcosa un altro progetto ambizioso che anni fa prevedeva la produzione di energia elettrica mediante lo sfruttamento del dislivello fra il Mediterraneo e il mar Morto. Anche allora i progetti, sulla carta, sembravano molto promettenti. Poi però sono stati archiviati e passati nel dimenticatoio. Adesso c’è da sperare che quella lezione sia stata appresa e che le leadership attuali sappiano muoversi con lungimiranza verso il benessere dei rispettivi popoli.