di Roberto Zadik
Ci sono imprese che passano alla storia per eroismo, coraggio, altruismo. Una di queste è quella compiuta dall’esercito israeliano che nella settimana fra il 27 giugno e il 4 luglio 1976 riuscì miracolosamente a mettere in salvo i passeggeri del volo Air France 139 tenuti per una settimana in una morsa di tensione, fame e sofferenze psicofisiche da un gruppo di terroristi palestinesi e tedeschi che li avevano rinchiusi nei locali dell’aeroporto ugandese di Entebbe. La missione, che coinvolse in prima persona il Governo israeliano, Shimon Peres e Itzhak Rabin e militari valorosi come Dan Shomron fu un successo ma nell’ultima fase il giovane comandante Yoni Nethanyahu, fratello minore dell’attuale premier israeliano Benjamin, venne ucciso dall’esercito ugandese nell’aeroporto a soli 30 anni dopo aver motivato le truppe col suo coraggio e i suoi discorsi poco prima dell’operazione. (vedi qui il documentario di Rai Storia)
A ricordare questo incredibile episodio la serata “Operazione Entebbe” organizzata da Ogl, Organizzazione Giovanile Lubavich e da Rav Levi Hazan, che si è tenuta all’Hotel Marriott in via Washington nella sala Foscolo dove ha parlato l’ufficiale 64enne Rami Sherman che era assieme a Yoni Nethanyahu durante la missione. Figlio di sopravvissuti alla Shoah, Sherman ha meticolosamente ricostruito le fasi dell’intervento militare dello Stato ebraico, con l’aiuto di diapositive, foto e brevi video come quello in cui il dittatore Idiamin Dada, che fu molto ambivalente durante tutta la sua politica, si rivolge agli ostaggi tenendo un discorso all’areoporto.
Ma com’è stato possibile che un aereo diretto da Parigi a Atene finisse in Uganda? E cosa stava succedendo negli anni ’70 in Israele e nel mondo? Il militare ha fornito diversi particolari, molti dei quali decisamente interessanti e originali. Introdotto rapidamente da Rav Levi che ha sottolineato il fondamentale impegno dei soldati per lo Stato d’Israele “sono una luce per tutti noi perché rischiano la vita per portare serenità e pace attorno a loro”, Sherman ha sottolineato di essere qui “a Milano dopo un tour europeo in cui sono stato in vari Paesi dal Belgio alla Svezia a raccontare questa mia esperienza che ora intendo condividere con voi”.
Nato il 4 aprile 1953 in un Kibbutz nel nord di Israele vicino al confine col Libano, Rami Sherman come ha detto Rav Levi Hazan “è cresciuto sentendo il rumore degli spari” in una famiglia di sopravvissuti dalla Shoah entrando giovanissimo nel corpo militare dei Sayeret Matzal e salendo rapidamente i gradi delle gerarchie militari assieme al suo compagno e amico Yomi Nethanyahu. “Quando apprendemmo che l’aereo era stato dirottato dai terroristi dallo scalo di Atene in Uganda fummo molto spaventati, non sapevo niente di quel luogo tranne che il governo inglese in passato avesse formulato l’ipotesi che gli ebrei potessero vivere lì invece che in Israele”. Sherman ha raccontato che il 27 giugno un aereo partì da Parigi alla volta di Atene, il pilota era un certo Michel Bacos, che “pur non essendo né ebreo né israeliano ci stette molto vicino durante le operazioni a Entebbe”; sul volo c’erano 248 passeggeri dei quali 105 ebrei e israeliani. Ad Atene salirono anche quattro terroristi che inizialmente si nascosero fra la folla. Due terroristi erano tedeschi appartenenti alla temibile banda Bader Meinhof e due erano palestinesi vicini all’Olp di Yasser Arafat. “Erano anni molto duri per il terrorismo europeo e internazionale, anche in Italia c’erano le Brigate Rosse”, ha detto Sherman ricordando episodi molto pesanti anche per Israele sia nello Stato che all’estero con l’attentato nel 1971 sul volo El Al e nel 1972 alle olimpiadi di Monaco.
Successivamente da Atene i dirottatori fecero deviare progressivamente il volo e i malcapitati passeggeri in Libia e poi dopo sei angosciose ore di sequestro senza acqua, cibo e rare soste nelle toilette del velivolo, giunsero a Entebbe. Furono giorni tremendi, ha rievocato il generale Sherman e il clima era torrido e umidissimo lì in Uganda in piena estate “con zanzare e tafani dappertutto”. I terroristi fecero scendere gli ostaggi dall’aereo e vennero rinchiusi nell’aeroporto per giorni. “Non si conoscevano fra loro ed erano tutti diversi per età, lingue e provenienze. Alcuni erano ebrei ortodossi, altri israeliani laici, altri ancora erano sopravvissuti alla Shoah. La donna tedesca fu molto dura con tutti gli ostaggi e gli ex deportati vissero con grande sconvolgimento quando i terroristi fecero la selezione per dividere prigionieri ebrei e non ebrei come trent’anni prima”.
Sherman nel suo resoconto ricostruisce stati d’animo, emozioni, e istantanee vivide e precise con la forza del discorso e del ricordo da consumato eroe di guerra e di questa impresa qual è stato. Intanto nel Governo regnava l’incertezza e la tensione aumentava ogni giorno che passava la tensione aumentava sempre di più. “I terroristi avevano condizioni molto severe per il rilascio dei terroristi, come la liberazione di 57 terroristi, 43 in Israele e 14 in altri Paesi e hanno chiesto 5 milioni di dollari al Governo. Inoltre diedero un ultimatum per il primo luglio ma il Governo riuscì a posticiparlo con la scusa di trovare il denaro, ma “la finalità vera era un’altra, dovevamo escogitare un piano che funzionasse in pochissimo tempo”.
Sherman ha riepilogato le emozioni di quella terribile settimana con liti e discussioni anche in Parlamento dove non mancavano “i soliti scontri fra askenaziti e sefarditi e fra persone di provenienze e di mentalità diverse che in Israele non sono mai mancate”. Quando seppe che i terroristi volevano separare ebrei e non ebrei, Shimon Peres sollecitò un intervento immediato invitando il Governo “a mobilitarsi per salvare qualunque ebreo indipendentemente dalla provenienza”.
Ma come si riuscì a sbloccare questa situazione di stallo? E come arrivare fino in Uganda con una distanza di più di quattromila chilometri? Alla fine “scartando le ipotesi di percorrere il Lago Vittoria su imbarcazioni e di andare in Uganda in macchina dal Kenya, pensammo alla soluzione aerea.” Si misero a bordo di quattro velivoli chiamati “Hercules”, mezzi molto pesanti che lo divennero ancora di più quando caricarono le macchine “che dovevano confondersi nella notte. Cercammo una Mercedes che somigliasse a quella del dittatore Idiamin Dada e di realizzare delle bandiere simili a quelle ugandesi. Domenica mattina partimmo prestissimo. Tanti erano gli interrogativi e non sapevamo come sarebbe andata a finire” ha raccontato fra l’ironico e il divertito Sherman. Un ruolo molto importante venne giocato dal presidente ugandese Idi Amin Dada, autoritario e dai modi ambivalenti che portava da mangiare agli ostaggi e negoziava accordi con Gheddafi e con Arafat e che un tempo aveva collaborato con Israele mandando in addestramento i suoi soldati presso lo Stato ebraico e un certo Bruce McKenzie, un inglese che era entrato nel parlamento del Kenya, Stato vicino all’Uganda e che assieme al Mossad partecipò attivamente al piano di liberazione di Entebbe. Gli aerei atterrarono prima in Kenya e poi partirono la notte fra Sabato e domenica alla volta dell’aeroporto ugandese. Dopo sei giorni di prigionia, di stenti e di fame, gli ostaggi erano stravolti. Alcuni religiosi cantarono la Kabbalat Shabbat e canti di gioia ma vennero fermati da altri che non gradirono canti di gioia in un’atmosfera del genere.
Furono ore cruciali, Yoni Nethanyahu che era sul volo “incoraggiò e motivò i soldati con un discorso che ci commosse a tutti”. Sherman ha messo in evidenza i vari pericoli che caratterizzavano quella missione. Gli aerei volavano a bassa quota, a luci spente, “pochi giorni prima facemmo un atterraggio di prova e senza luci a Sharm El Sheikh”, e tante persone si sentirono male e vomitarono durante il volo. Arrivarono nella notte “in un silenzio fantastico e c’era un bel paesaggio mai visto prima”, ha detto il militare e “tutto si svolse più facilmente del previsto”. “Riuscimmo a identificare facilmente i terroristi, anche grazie alle informazioni che ci aveva dato McKenzie e gli ostaggi non ebrei liberati nel frattempo, a penetrare nell’areoporto uccidendo quei criminali senza particolari problemi.
Le maggiori difficoltà erano gli ugandesi che sparavano dalla torre dell’aeroporto mentre Yoni ci incitava a fare presto in modo da ultimare l’operazione nel più breve tempo possibile. Quel giorno venne ucciso dai colpi di pistola e morì a soli 30 anni dissanguato dalle ferite. Fu un durissimo colpo per tutti noi e per la sua famiglia, in quanto fu l’unico a non tornare da quella missione mentre per noi fu un successo e riuscimmo a liberare tutti gli ostaggi tranne due che morirono uccisi per errore dai nostri soldati”.
Nella sua testimonianza, l’uomo ha descritto anche la silenziosa marcia dall’areoporto agli aerei venuti a salvare quelle persone. “Erano tutti zitti, terrorizzati e sconvolti ma in fondo felici che quell’incubo fosse finito. Abbiamo detto loro di stare fermi e sdraiati mentre lottavamo coi terroristi e gli ugandesi. Inizialmente credevano che fossimo il nemico ma poi hanno capito le nostre buone intenzioni. Alcuni camminavano senza scarpe increduli e fu molto complicato caricare tutte quelle persone e portarle a destinazione”.
Fu un episodio di rara spettacolarità in cui vennero liberati 102 ostaggi, da parte di 190 soldati che volarono per più di quattromila chilometri riuscendo a distruggere gran parte della flotta aerea del dittatore Idi Amin: questo senza l’ausilio delle tecnologie e delle comodità che ci sono oggi. Si tratta di una data storica quella del 4 luglio 1976 che deve la sua riuscita, ha detto Sherman, a diversi personaggi chiave di quella vicenda. Dal pilota Michel Bacos al generale dell’Idf Mordechai “Motta” Gur, al generale Dan Shomron, a Yoni Nethanyahu che insieme realizzarono un vero miracolo passato alla storia come una delle più valorose imprese degli ultimi 50 anni.