di Mara Vigevani
«Il problema di Israele è che non esiste un meccanismo che fermi l’eruzione di violenza. Nessuno vuole aiutare Israele, nessuno è disposto a collaborare. Il Presidente Reuven Rivlin aveva messo in guardia Netanyahu: la linea politica adottata con gli Stati Uniti sulla questione iraniana avrebbe isolato Israele, diceva il Presidente. Ora non c’è più nessuno a cui chiedere soccorso. Siamo noi e l’Onnipotente. Il problema è che anche dall’altra parte c’è un Dio, chiamato Allah e ora la guerra è diventata una specie di Derby tra i Creatori del mondo». Così, con una vena di humour, riassume Ben Caspit, editorialista del quotidiano Maariv, quello che sta succedendo in Israele nelle ultime settimane. Gli attacchi con i coltelli hanno colto impreparati gli israeliani, anche se escalation di questo tipo non sono una novità: risale all’anno scorso il terribile attentato di due palestinesi in una sinagoga. I terroristi uccisero 5 persone armati di pistole e mannaie. Nell’estate del 2008, nel giro di tre settimane, vennero usati trattori per condurre due attacchi a Gerusalemme. E nell’ottobre dello scorso anno un palestinese a bordo di un trattore venne ucciso dopo aver tentato di entrare in una base militare a nord di Gerusalemme. Senza contare gli attacchi di “automobili assassine”che hanno investito e ucciso parecchi israeliani l’anno scorso, per le strade di Gerusalemme.
In questi casi, il Primo Ministro Nethanyahu riesce a riportare la quiete in un tempo più o meno breve con la chiusura di tutti i villaggi di Gerusalemme est, l’aumento delle forze di sicurezza in tutte le strade più a rischio, il moltiplicarsi dei controlli. Questa la formula che diminuisce, solitamente, il numero di attentati, in modo che la vita degli israeliani possa tornare alla quotidianità. «Un eccellente pragmatismo quello di Nethanyahu», scrive Yossi Verter su Haaretz «ma quand’è che arriverà il giorno in cui un leader di centro sinistra dirà ad alta voce che Israele non se ne fa niente dei villaggi di Silwan, Jabel Mukaber e tutto il resto di Gerusalemme est? Quando arriverà il giorno in cui un vero leader porterà il suo popolo a disfarsi di quartieri diventati solo nidi di terroristi? L’ironia vuole che solo un leader di destra, carismatico come Nethanyahu, possa convicere gli israeliani che questa è la soluzione. Quando le cose si deteriorano, Netanyahu agisce bene. Con discrezione, senza premere troppo il piede sull’acceleratore. Ma che cosa fa (perché dorme?, ndr), tra un’ondata di violenza e l’altra?».
Secondo Giora Eiland, generale in riserva, già capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale e uno tra i più importanti strateghi dello Stato ebraico, «la politica del governo, dal post intifada (2002) ad oggi, non è stata sbagliata. La politica israeliana in Giudea, Samaria e Gerusalemme si basa sulla gestione del conflitto, piuttosto che su un tentativo di risolverlo», scrive Eiland sul quotidiano Yedioth Ahronot. «Ma una gestione razionale del conflitto richiede di evitare qualsiasi tipo di attrito. Ad esempio, la costruzione a Gerusalemme. È necessaria una chiara distinzione tra la costruzione di nuovi quartieri ebraici e la costruzione di case ebraiche nel cuore di un quartiere arabo. Erigere nuovi quartieri ebraici in aree aperte è un interesse vitale e necessario sia dal punto di vista comunale che dal punto di vista nazionale, e non dobbiamo essere scoraggiati dalle condanne del mondo. Ma accanto a questo, il governo sta incoraggiando anche l’acquisto o la costruzione di case nel cuore della popolazione araba. La qual cosa crea odio inutile. Una politica di gestione dei conflitti significa, tra le altre cose, il mantenimento di uno status quo sulle questioni più delicate. Non si può gestire il conflitto, e drasticamente cambiare la situazione esistente. Questo vale, ad esempio, per la situazione sul Monte del Tempio. Il governo ha annunciato troppo tardi e con una voce debole che non aveva alcuna intenzione di cambiare la situazione. Se il primo ministro si fosse rivolto al pubblico musulmano in Israele e nel mondo un anno fa con una dichiarazione decisiva, forse l’attuale ondata di violenza non sarebbe iniziata». Sempre su Yedioth Ahronot, l’editorialista Beni Cohen descrive i giorni di violenza come «una vera guerra civile tra cittadini israeliani; vittime e terroristi che hanno la stessa carta di identità. Quando ebrei e musulmani vivono insieme, quando Gerusalemme est e Gerusalemme ovest fanno parte dello stesso comune, il conflitto si trasforma in guerra civile interna, ed è molto più difficile da risolvere». Dopo l’attentato sull’autobus a Gerusalemme lo scorso 13 ottobre, Nethanyahu ha deciso di erigere un “muro temporaneo” che divida il quartiere di Gerusalemme ovest Armon Hanatziv (che ha collezionato il maggior numero di attentati nelle ultime settimane) dal quartiere arabo Jabel Mukaber. I suoi stessi ministri hanno subito alzato i toni opponendosi a tale decisione: significherebbe accettare di fatto la divisione della città tra una zona est e una zona ovest.
Marik Stern, ricercatore presso il Jerusalem Institute for Israel Studies, punta il dito su un ulteriore problema che la divisione di Gerusalemme potrebbe portare con sé. «Nel 2013, i residenti di Gerusalemme est, arabi, hanno rappresentato il 75% della forza lavoro dell’industria alberghiera della città, il 65% dei lavoratori del settore costruzioni, il 52% dei lavoratori dei trasporti, il 29% dei dipendenti di produzione e il 20% dei lavoratori nel sistema sanitario. La chiusura indifferenziata di Gerusalemme est porterà a una grave carenza di manodopera in alberghi, fabbriche, cantieri, in negozi, farmacie e ospedali e a un forte rallentamento dell’economia di Gerusalemme. Finora, a parte episodi isolati, i terroristi palestinesi erano adolescenti, e non persone con un lavoro fisso a Gerusalemme ovest. Un posto di lavoro fisso mantiene la normalità. Se decine di migliaia di persone rimarranno a casa senza potersi recare al lavoro, avremo ulteriori ricadute negative sulla sicurezza». Lo storico Zeev Sternhell dell’Università Ebraica di Gerusalemme, in un articolo sul quotidiano francese Le Monde, si chiede invece se oggi la società israeliana e quella palestinese siano davvero in grado di esprimere una capacità di reinventarsi, di uscire dall’influenza della religione e della storia, e accettare di scindere il Paese in due Stati liberi e indipendenti. A tutt’oggi, nessuno sa articolare con chiarezza quale sia la migliore soluzione, accettabile per entrambi.