I Sei giorni che sconvolsero il Medioriente

Israele

di Claudio Vercelli

Dal Sinai al Golan, dal Giordano allo stretto di Tiran. La rievocazione storica delle tappe che portarono a quella dirompente vittoria. L’importanza giocata dall’aviazione. Gli effetti collaterali e il “dopo”. La nascita della “questione palestinese”. Breve storia di un evento spartiacque che ha cambiato il volto di Israele e del mondo arabo

Riposo sotto al Kotel, appena liberato (1967)
Riposo sotto al Kotel, appena liberato (1967)

Dirompente, sconvolgente, spiazzante. Inattesa, soprattutto. Così fu la vittoria d’Israele nella “Guerra dei sei giorni”, Milchemet Sheshet Ha Yamin. In un conflitto tanto breve, tra il 5 e il 10 di giugno del 1967, quanto intenso e per più aspetti decisivo, poiché in grado di condizionare un’epoca che ad oggi non si è ancora del tutto conclusa. Fu una guerra lungamente preconizzata, poi dichiarata e quindi combattuta con le minacce prima ancora che si ricorresse concretamente alle armi. Un conflitto risolto infine sui campi di battaglia, ma intrapreso sul piano mediatico, brandito come una clava soprattutto da Gamal Abd el-Nasser, l’allora padre-padrone dell’Egitto, monarca repubblicano, autocrate terzomondista e carismatico duce del «socialismo nazionale» e dell’internazionalismo arabo. Giordania e Siria ebbero un ruolo, ma da comprimari.

L’evento bellico non arrivò inatteso, quindi, ma fu comunque un colpo di maglio. Per Israele, all’epoca, era infatti il confine meridionale con l’Egitto a costituire il vero fianco debole. Non solo per l’esposizione militare nel Sinai, bensì per l’interessato patrocinio che il rais cairota offriva al terrorismo contro lo Stato ebraico. Un patrocinio generoso che stava dentro un preciso calcolo d’interessi, il quale poco o nulla aveva a che spartire con la nascita di un imprecisato “Stato palestinese”, ma, piuttosto, con la conquista della leadership di ciò che residuava del panarabismo e, con esso, del dominio sul campo dei Paesi cosiddetti “non allineati”.

La scelta di Nasser, che sottostimava la capacità di reazione israeliana, era infatti quella di polarizzare e colonizzare gli umori delle popolazioni arabe, presentandosi come l’alfiere di un blocco di nazioni “progressiste”, destinate a colpire l’”entità sionista” affinché la platea internazionale intendesse con chi aveva a che fare. Poco plausibile, per il Cairo, che la disintegrazione totale dell’odiata Israele potesse avere per davvero luogo, malgrado le roboanti dichiarazioni. Ma di certo un suo netto ridimensionamento era nelle corde dei calcoli politici egiziani. L’immediato nodo conflittuale era il controllo dell’accesso agli stretti di Tiran, ma rimandava anche ai progetti sulle risorse idriche, laddove Siria e Giordania intendevano deviare il corso del Giordano, per rendere inefficaci i tentativi da parte di Gerusalemme di rendere fertile una parte della regione. Le operazioni militari che garantirono a Israele un’efficace risposta alla minaccia e, con essa, l’acquisizione di una porzione di territori eccezionalmente ampia, furono in grande parte favorite dal controllo dell’aria da parte della propria aeronautica.

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Fu una breve ma intensissima guerra di movimento, che sbaragliò completamente gli avversarsi con un’incredibile quantità di manovre di accerchiamento, superamento e neutralizzazione. Mentre il 6 giugno Gaza e poi il Sinai venivano progressivamente raggiunti, in una marcia da subito incessante, già nella giornata del 7 giugno era evidente l’esito del confronto. Ma fu anche quello il momento in cui la guerra di difesa assunse per Israele la veste più importante, con la liberazione della città vecchia di Gerusalemme e il raggiungimento del Kotel. L’8 giugno fu una giornata decisiva, poiché nel Sinai la terza armata egiziana rischiò di rimanere stritolata. Si apriva la via del Canale di Suez, mentre le alture del Golan, a nord, nei due giorni successivi, furono per grande parte assicurate al controllo dell’esercito israeliano. La storia militare ci restituisce l’immagine di un’oliata organizzazione bellica, che operò con un’eccezionale capacità di iniziativa e coordinamento. Fu un fatto che riguardò l’esercito ma, non di meno, coinvolse tutta la società israeliana.

Il contraccolpo politico
La storia politica, dopo la grande soddisfazione del primo momento, si sarebbe tuttavia rivelata più complessa. Il controllo di una grande porzione di terre liberava, almeno momentaneamente, dagli immediati effetti di quella lunga guerra di logoramento fatta di cannoneggiamenti, tiri al bersaglio, infiltrazioni terroristiche, profanazioni di luoghi sacri, provocazioni ossessivamente ripetute, che dal 1956 in poi avevano costellato gli impossibili rapporti di Israele con i suoi minacciosi vicini. C’era adesso un senso di “profondità strategica” che prima era mancato. Le responsabilità che ne derivavano erano molte. Veniva decadendo la “linea verde”, ossia il perimetro armistiziale che con gli accordi di Cipro del 1949 aveva temporaneamente cristallizzato il confronto con i Paesi limitrofi.
A partire dal giugno 1967 si doveva discutere del riconoscimento d’Israele, e quindi di confini reali e sicuri, oppure tutto sarebbe immediatamente tornato in gioco. Cosa, quest’ultima, che puntualmente si verificò già nei mesi successivi, con i tre dinieghi pronunciati a Khartoum dai Paesi arabi: no alle trattative, no alla pace, soprattutto no a Israele. La questione del destino delle comunità arabe presenti negli eterogenei territori assicurati all’amministrazione israeliana sarebbe divenuta rilevante se non preponderante nell’agenda politica nazionale. In alcuni casi, a partire dal Sinai, le laboriose negoziazioni avrebbero prodotto gli effetti desiderati.

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Ma nei confronti del futuro della Cisgiordania si apriva un lungo capitolo, quello delle terre disputate, che a tutt’oggi rimane aperto. Dalla guerra arabo-israeliana si passava quindi al conflitto israelo-palestinese, venendo investiti della questione del destino delle comunità autoctone, all’interno di un linguaggio collettivo depositario dei cascami del terzomondismo.
Non di meno, il 1967 segnò uno spartiacque profondo anche nella società israeliana, avviando processi di lungo periodo. Iniziava il declino del laburismo. Dieci anni dopo lo scenario politico avrebbe registrato una brusca virata. Per il sionismo medesimo interveniva una seconda stagione, nei rapporti con la Diaspora, ma anche nella considerazione che le nozioni di “terra” e di “spazio” venivano ora ad assumere in una società, quella israeliana, sempre più differenziata e pluralista. Dove trovare i punti di sintesi tra molte storie e tante identità è il sale della sua democrazia.