Goodbye Lenin a Tel Aviv, ecco gli ultimi bundisti

Israele

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Il “Bund”, movimento operaio  che nel secolo scorso elettrizzava le masse ebraiche in Russia e Polonia e che per decenni fu uno dei pilastri dell’internazionalismo proletario in Europa, è ancora attivo (all’insaputa di quasi tutti gli israeliani) in un “covo” di Tel Aviv. A rompere il silenzio su questi incalliti professionisti della lotta sociale (alcune decine di ottantenni che frequentano un circolo dove ci si esprime solo in yiddish) è stato di recente, con un film su di loro, il giovane documentarista Eran Torbiner.

Da oltre mezzo secolo in Israele, lo scrittore Yitzhak Luden – 88 anni portati con piglio battagliero, indomito senso dell’umorismo e assoluta lucidità – ne incarna oggi la leadership. Spiega d’essere rimasto un convinto fautore del bundismo – ideologia socialista rivoluzionaria che mosse i primi passi alla fine dell’Ottocento, entrando rapidamente in conflitto tanto con i bolscevichi (per la sua impronta umanitaria) quanto con i fratelli separati sionisti (per il rifiuto del culto nazionale della terra d’Israele) – poiché, fatti alla mano, lo Stato israeliano “non ha rappresentato una soluzione della questione ebraica”. Non solo non ha sconfitto l’antisemitismo, ma per certi versi – accusa – ha contribuito a rinfocolare sentimenti d’ostilità che mettono a repentaglio gli ebrei della Diaspora.

Luden vive in un piccolo appartamento alla periferia di Tel Aviv, guarda caso in una traversa di Rehov ha-Maavak, ossia Via della Lotta. Nato in una Varsavia dove il Bund garantiva alle masse ebraiche (allora un terzo della popolazione cittadina) istruzione, cultura e assistenza sindacale, Luden avrebbe visto il suo mondo crollare con l’invasione tedesca. Il movimento fu infatti stritolato dallo sterminio nazista. Più tardi, ai superstiti, sarebbe toccata anche la persecuzione degli stalinisti: “Per loro eravamo fumo negli occhi, eretici da sradicare, un po’ come i trotzkisti”, ricorda lo scampato.

Rimasto solo al mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale, approdò a Tel Aviv con poche altre centinaia di Bundisti. Tutti si sentivano in transito: speravano testardamente che dalle ceneri del conflitto e dell’Olocausto sarebbe potuta risorgere presto una nuova Polonia, dove riprendere la lotta sociale. Ma il sedimentarsi di un regime comunista totalitario (e di nuove forme d’antisemitismo) li indussero a restare infine in Israele, malgrado il credo irriducibilmente avverso al Sionismo. C’era d’altronde un’altra battaglia da combattere: quella per la lingua yiddish, osteggiata dai laburisti di David Ben Gurion perché vista come espressione della “odiata Diaspora”.

Gli scrittori yiddish di Tel Aviv si sentirono costretti in un ghetto virtuale. Ma era gente di acciaio. Malgrado le difficoltà, militanti come J. Artusky e Ben-Zion Zalevic avrebbero tenacemente pubblicato un giornale nella lingua degli ebrei della Mitteleuropa: i lettori erano pochi, ma con le idee chiare, ispirate a istanze radicali sul fronte sociale e a un pacifismo senza compromessi su quello della politica regionale. “Da sempre il Bund è stato per una soluzione equa della questione palestinese: due Stati sovrani, in buon vicinato”, rivendica Luden.

Egli stesso ha prodotto migliaia di articoli, in parte raccolti ora in due ponderosi volumi in yiddish: e dunque incomprensibili all’israeliano della strada. In un recente editoriale (riservato forse a una platea di 800 persone), Luden strapazza da par suo il premier destrorso Benyamin Netanyahu per la “retorica bellicista, che – denuncia – rischia di scatenare un conflitto con l’Iran”. Viene allora da chiedergli cosa ne pensi – lui, sopravvissuto della Shoah e custode della memoria di una famiglia di vittime e di un mondo di ombre – dell’accostamento azzardato di recente da Netanyahu fra gli ebrei massacrati ad Auschwitz e i rischi di un “Olocausto nucleare” che incombono su Israele da parte di Teheran.

“Por-no-gra-fia politica”, sillaba a scatto, fremente d’indignazione, l’ultimo Bundista di Tel Aviv.