di Marina Gersony
Nelle trincee dell’animo umano, Israele si trova ad affrontare una battaglia silenziosa ma spietata. Questa non è una guerra combattuta con proiettili e armi da fuoco, ma con cicatrici invisibili e urla soffocate di dolore interiore. Mentre il Paese è alle prese con il conflitto in corso, un nemico insidioso emerge, un avversario che non può essere sconfitto con mezzi convenzionali: la crisi della salute mentale che affligge molti israeliani dopo il fatidico 7 ottobre.
Il Ministero della Difesa – come riporta un editoriale del Jerusalem Post – ha annunciato con preoccupazione che quasi 8.000 membri delle Forze di sicurezza, toccati dalle tenebre della salute mentale, saranno accolti nella Divisione di Riabilitazione entro la fine dell’anno. È un grido d’allarme che squarcia il silenzio e rivela le ferite invisibili che affliggono coloro che hanno servito con onore.
Le statistiche, fredde e implacabili come il vento del deserto, rivelano una verità amara: il 30% dei soldati feriti nell’attuale conflitto ha riportato danni emotivi, con il 60% di loro che combatte una battaglia interna contro il mostro del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). È un nemico insidioso, che non risparmia né giovani né anziani, né uomini né donne.
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I tassi di disturbo da stress post-traumatico sono in aumento
Ma il peso della guerra non grava solo sulle spalle dei soldati. Parliamo dei sopravvissuti, di coloro che hanno assistito all’orrore senza poterlo affrontare. Il festival Nova avrebbe dovuto essere un’esperienza di gioia e libertà, ma per molti si è trasformato in un incubo senza fine. Il fumo dei rave non è riuscito a dissolvere il buio che si è insinuato nelle anime di coloro che sono sopravvissuti, ma che ora lottano per trovare la luce: da quel giorno il calendario emotivo dello Stato ebraico è ancora fermo al 7 ottobre e prima che possa riprendere ci vorrà chissà quanto tempo ancora.
I racconti dei sopravvissuti risuonano nelle aule della Knesset, come lamenti struggenti di anime in pena. «Non sarei qui se non avessi avuto il mio psicologo», confessa Na’ama Eitan, una delle voci spezzate dall’orrore. Mentre il Paese promette più di quanto possa offrire, le voci disperate chiedono aiuto, implorando di non essere abbandonate al buio.
Anche gli operatori sanitari sotto stress
Ma la guerra della mente non conosce confini. La sofferenza si diffonde come un virus, infettando non solo i corpi dei soldati, ma anche le menti di coloro che cercano di curare le ferite. Gli operatori sanitari, gli educatori, i soccorritori – tutti combattono una guerra che non hanno scelto, affrontando un nemico che non si vede.
E mentre il Paese si stringe nelle spire della crisi, emergono altre tragedie nascoste nell’ombra. L’Associazione israeliana per la protezione dell’infanzia (ELI) rivela un aumento del 30% nelle richieste di aiuto per abusi fisici, sessuali ed emotivi. Le vittime della guerra non sono solo coloro che hanno indossato l’uniforme, ma anche coloro che hanno visto la guerra attraverso gli occhi spaventati dei bambini.
L’orologio dell’emergenza continua a scorrere inesorabile. L’ERAN, una luce nell’oscurità, ha ricevuto oltre 172.000 chiamate di aiuto da anime affogate nell’ansia e nel trauma. Mentre il conflitto si protrae, la richiesta di soccorso cresce, come un grido di aiuto in un deserto di disperazione.
E mentre la nazione si aggrappa alla speranza di un domani migliore, è chiaro che la battaglia per la salute e l’equilibrio mentale non può essere combattuta da soli. È un impegno che richiede il coraggio di riconoscere la sofferenza e la forza di tendere una mano e di offrire solidarietà a coloro che lottano nella tempesta.
Un trauma che si somma a un altro trauma
La crisi della salute mentale che si diffonde in Israele non è solo il risultato del conflitto attuale, ma si intreccia con un’altra forma di trauma che ha radici profonde nella storia del Paese. È il dolore ereditato, una ferita che si apre nuovamente con ogni generazione.
Per molti israeliani, il ricordo dell’Olocausto è una presenza costante, un’ombra che aleggia su ogni aspetto della vita quotidiana. E non è solo una questione di storia; è un carico emotivo che si trasmette attraverso i fili invisibili del tempo, da una generazione all’altra.
Gli studi hanno dimostrato che il trauma dell’Olocausto non si ferma alle vittime dirette, ma si insinua nel tessuto stesso della società, influenzando profondamente la mentalità collettiva. I sopravvissuti trasmettono inconsapevolmente il loro dolore ai loro discendenti, creando un’eredità di sofferenza che persiste nel tempo. Questo fenomeno è stato descritto come «»identificazione radioattiva» con la Shoah, una connessione emotiva che permea le generazioni successive, anche quando il tempo avanza.
Per la terza generazione, la presenza del trauma dell’Olocausto può essere palpabile, anche se non è stata direttamente vissuta. È un peso che si porta dietro, un’eredità di dolore che si manifesta in modi sottili ma significativi. Le cicatrici emotive della Shoah si intrecciano con le sfide della vita moderna, creando un terreno fertile per la crisi della salute mentale.
Così, mentre Israele si sforza di affrontare le drammatiche sfide del presente, deve anche confrontarsi con le ombre del passato che continuano a gettare lunghe ombre sul suo popolo. La guerra non è solo esterna, ma interna, una lotta contro i demoni che si nascondono nelle pieghe della storia e della memoria collettiva.
Foto: Manifestazione a Tel Aviv il 30 dicembre (Credit: Sofia Tranchina)