di David Zebuloni
La politica da dietro le quinte. Il sodalizio con Reuven Rivlin che ne ha fatto il suo braccio destro. L’incontro col Papa e col Presidente degli Stati Uniti. Una carriera più unica che rara quella di Rivca Ravitz. Ma come si riesce a far coesistere la carriera politica, dodici figli e una religiosità ultraortodossa? Come conciliare ambizione e famiglia, la Knesset e gli schnitzel preparati per la prole? Un’intervista esclusiva
Dodici sono i suoi figli. Non due, non sei, non dieci: ben dodici sono le vite che Rivca Ravitz è riuscita a portare al mondo. Eppure, quello demografico, non è il suo unico contributo alla società israeliana. Nonostante l’identità da ultraortodossa convinta, la giovane Ravitz è riuscita a segnare la storia della politica israeliana intrufolandosi nella Knesset come assistente parlamentare all’età di diciott’anni, già incita del primo figlio, e diventando anni dopo il braccio destro del Presidente Rivlin, nonché una delle donne più influenti del Paese. Ruolo affatto scontato per chi proviene dalla comunità più conservatrice di Israele. Quando, durante il nostro incontro nella Hebrew University a Gerusalemme, ripercorriamo insieme le tappe della sua vita, ciò che più stupisce di Rivca è lo stupore che lei stessa nutre per tutto ciò che le è capitato. Non il destino di mamma e nonna che ha fortemente voluto, ma quello di figura pubblica che lei non ha scelto, ma dal quale non si è mai sottratta. “Dio mi ha voluta in quella posizione e io ho assecondato il suo volere”, mi racconta. Oggi Dio sembra avere per lei altri piani.
Rivca, torniamo indietro nel tempo. Mi racconta della casa in cui è cresciuta?
Sono nata a Gerusalemme, in una famiglia semplice, ma calda e felice. Io sono la seconda di dieci figli, e anche un po’ la mamma dei miei fratelli e delle mie sorelle. Quando si è in così tanti, i grandi si sentono sempre responsabili dei più piccoli, e così è stato anche da noi. Oggi, ripensando alla mia infanzia, capisco che la situazione economica non era delle migliori. Avevamo solo vestiti rattoppati, non prendevamo l’autobus nel raggio di mezz’ora di camminata per risparmiare sul biglietto. Si potrebbe dire che eravamo una famiglia povera, ma io non sentivo alcuna mancanza. Al contrario, sentivo di avere tutto ciò di cui avevo bisogno. E anche di più.
Qual era il suo sogno da bambina?
Essere una maestra, era la mia vocazione, ed ero già indirizzata verso quella strada. All’età di diciott’anni ero pronta ad insegnare. Avevo superato gli esami necessari per farlo e mi era già stata assegnata una classe. Poi, un attimo prima dell’inizio dell’anno scolastico, mi è stato offerto un lavoro nella Knesset, e da allora la mia vita è cambiata per sempre.
Come ci è arrivata?
Mio suocero, all’epoca, era un parlamentare di spicco all’interno del partito ortodosso Deghel HaTorah. Proprio in quel periodo venne eletto presidente della Commissione Finanze e mi propose di lavorare per lui come assistente parlamentare. Io rifiutai, dissi che sognavo di fare la maestra, e lui mi fece capire che mi stava offrendo una prospettiva lavorativa che non potevo rifiutare. Così, accettai.
Com’è stato per la Rivca cresciuta in una realtà modesta, entrare nel luogo più importante e prestigioso del Paese?
Ero del tutto spaesata. La Knesset è grandissima e io mi ci persi molte e molte volte. Poi, scoprii di essere l’unica donna in mezzo a decine di uomini, per la maggior parte non religiosi. Capii immediatamente di trovarmi in una realtà molto diversa da quella che conoscevo.
C’è stato un momento in particolare che ha segnato questo passaggio?
Quando arrivai alla Knesset avevo diciott’anni e mezzo, ed ero incinta del mio primo figlio. Ricordo che nel momento in cui entrai in ufficio, qualcuno fece un commento sulla mia pancia e domande sulla gravidanza. Io ne rimasi sconvolta. Vede, nel mondo ultraortodosso non si usa commentare la pancia di una donna, certo non in pubblico, per questioni di pudore. Poi ricordo che mi sedetti davanti al computer, senza avere la più pallida idea di come attivarlo. Cominciai a scorrere il mouse sullo schermo, ma nulla accadde. Piano piano imparai. Fu una cosa graduale. Lentamente cominciavo a capire meglio la loro lingua e loro la mia. Mia madre partorì il suo decimo figlio quando io ero alla fine della gravidanza del mio primo, e ricordo che entrai in ufficio euforica, dicendo a tutti che il bambino era nato. Loro fissavano la mia pancia senza capire di cosa stessi parlando. Quando scoprirono che si trattava di mia madre, rimasero senza parole. Fu un momento esilarante.
In che modo il suo cammino e quello di Reuven Rivlin si sono incrociati?
Quando la Knesset approvò una legge che proibiva ai suoi membri l’assunzione di parenti per ruoli istituzionali, mio suocero mi dovette licenziare, ma mi trovò lavoro come assistente parlamentare per un membro abbastanza anonimo del Likud. Uno che all’epoca non aveva rivestito ruoli politici di spicco. Quello era Rivlin. Da allora affrontammo insieme ogni avventura politica, fino alla Presidenza. Fui io a gestire tutta la campagna elettorale e, quando venne eletto Capo dello Stato, fu per me una soddisfazione enorme. Mi domandò quale ruolo desideravo rivestire e io chiesi il più importante di tutti, ma anche quello che conoscevo meglio. Chiesi di essere capo del suo team personale, e lui accettò.
Perché desiderava proprio questo ruolo?
Sono abituata a dirigere gruppi di persone, lo faccio da quando sono nata, prima in casa dei genitori e poi in casa mia. Ero convinta di poter svolgere questo lavoro al meglio, ma solo quando mi sono ritrovata a dirigere persone molto più adulte di me e con un passato militare e politico decisamente più corposo del mio, ho capito l’importanza del ruolo.
Quali sono le maggiori difficoltà che una donna ultraortodossa incontra lungo il proprio cammino politico?
Le difficoltà sono tantissime. Durante la presidenza Rivlin, ho trascorso molto tempo fuori da Israele, per accompagnarlo nei suoi viaggi diplomatici. Non è facile lasciarsi una casa piena di bambini alle spalle, come non è facile poter rispettare tutte le norme religiose in luoghi privi di vita ebraica. Spesso mi sono ritrovata a digiunare per giorni interi. Venivo invitata nei posti più esclusivi del mondo, in palazzi reali e case presidenziali sulle cui tavole venivano disposte decine di posate dorate di tutte le forme e le misure. Tutti attorno a me assaporavano le prelibatezze mentre io sorridevo e sorseggiavo un bicchiere d’acqua. Poi, quando tornavo in Israele, prima di andare a casa facevo tappa al chiosco in fondo alla via, ordinavo una pita piena di falafel e la divoravo mentre tutta la tahina mi colava sulle mani. La dissonanza tra queste due realtà mi fa sempre sorridere.
Le risulta complicato non poter stringere la mano agli uomini, considerando il suo ruolo diplomatico?
Nel 2015 accompagnai Rivlin a Roma, nella sua visita ufficiale al Vaticano. Visita importantissima per lo Stato di Israele, con giorni e giorni di preparativi. L’ambasciatore ci diede delle direttive ben precise. Dovevamo stare in fila aspettando il nostro turno e, una volta davanti al Papa, dovevamo fare un lieve inchino e stringergli la mano. Io spiegai all’ambasciatore che, in quanto donna ortodossa, non potevo stringergli la mano e lui mi rassicurò dicendomi che si sarebbe occupato della questione. Il giorno stesso del grande incontro, un attimo prima di incontrare il Papa, l’ambasciatore mi disse mortificato di essersi dimenticato del mio problema e io andai letteralmente nel panico. Cosa dovevo fare? Andare contro i miei principi? Assecondare il Papa? Pregai Dio e in men che non si dica ero davanti a Papa Francesco.
Si aggrappò alla mano di Dio o strinse quella del Papa?
Decisi di non rinunciare ai miei principi, capii che temevo Dio più di quanto temevo il Papa. Lui mi porse la mano e io risposi con un sorriso. Gli spiegai che sono una donna ultraortodossa e, pertanto, non toccavo altri uomini al di fuori di mio marito. Lui si rivelò estremamente interessato, forse affascinato. Mi fece moltissime domande e, quella che doveva essere una visita di pochi secondi, si prolungò diversi minuti. Al termine della nostra conversazione, lui fece un bellissimo gesto. Coprì la croce appesa al collo con la mano destra e mi congedò con un inchino. Un fotografo lì presente colse quel momento e l’immagine del Papa inchinato davanti ad una donna ebrea ultraortodossa fece immediatamente il giro del mondo. Quando riaccesi il cellulare, scoprii di aver ricevuto centinaia di messaggi. Ci misi un po’ a realizzare cosa fosse realmente accaduto.
Anche Joe Biden si inchinò davanti a lei…
Quello fu un attimo incredibile. Al termine del suo mandato presidenziale, Rivlin fu invitato alla Casa Bianca per un incontro con il Presidente americano.
Un attimo prima di entrare nella Sala Ovale dove lo attendeva Biden per un incontro a quattr’occhi, Rivlin mi chiese se volevo entrare anch’io. Ovviamente accettai. Biden inizialmente non capì chi fossi, poi Rivlin mi introdusse e gli disse: “Presidente, indovini quanti figli ha Rivca”.
Quando scoprì che ne ho dodici, rimase senza parole. Si inginocchiò letteralmente davanti a me e disse: “Se la mia mamma avesse saputo che ho incontrato una madre di dodici figli, mi avrebbe ordinato di inginocchiarmi immediatamente davanti a lei. La mia mamma amava le famiglie grandi, per lei il mestiere di madre era più importante di quello di presidente”.
Che cosa pensò in quel momento?
Mi commossi, ma soprattutto mi preoccupai per il suo completo. Era così bello ed elegante, non volevo che si strappasse. Poi, realizzai che spesso perdiamo di vista ciò che è importante davvero. Ci confondiamo dando al lavoro troppa importanza, quando l’unica cosa che conta davvero è la famiglia. Sia il Papa che il Presidente Biden, infatti, non si sono inchinati davanti a me in quanto Rivca, ma in quanto simbolo. In quanto mamma.
So che la mia è una domanda banale, naif, so che oggi si può essere sia madri sia donne in carriera, ma il suo caso è davvero fuori dal comune. Come si fa a gestire l’ufficio più importante del Paese con dodici figli in casa?
Con l’aiuto di Dio, e quello di mio marito ovviamente. Senza di lui, nulla sarebbe stato possibile. È un padre molto presente.
A che ora si sveglia la mattina?
Alle quattro e mezza. Prego, leggo le e-mail, cucino. Entro le sei mezza solitamente è tutto pronto.
Come si cucina per dodici figli?
Il segreto sta tutto nelle stoviglie. Bisogna avere dei tegami enormi, delle pentole giganti. Preparo solitamente cose semplici: couscous e polpette, riso e schnitzel. Non è poi così complicato, al posto di buttare in acqua un pacco di pasta, ne butto tre. Tutto qui.
Crede di poter eccellere come madre pur avendo un lavoro tanto ambizioso?
Qui la questione si fa più complicata. Questo è certamente un tasto dolente. Io faccio il possibile, ma ovviamente ho i miei limiti. I miei figli spesso sottolineano la mia assenza. Talvolta, scherzando, dicono che non sono una brava madre, ma sotto ogni scherzo c’è un fondo di verità. Guardi, io credo che la vita sia fatta di compromessi. Questo è il mio compromesso: svegliarmi ogni mattina con la consapevolezza di svolgere un lavoro importante, accettando di non essere una madre perfetta.
C’è stato un attimo in cui ha pensato che il suo lavoro fosse privo di valore, se le impediva di stare vicino ai suoi figli?
Infinite volte. Quasi ogni mattina mi svegliavo con l’impulso di volermi licenziare, ma senza mai farlo per davvero. Ci sono stati diversi momenti di rottura, ma ne ricordo uno in particolare. Era il compleanno di mio figlio, tutti lo festeggiarono in casa, mentre io ero con Rivlin in India per una visita ufficiale. Trascorsi tutta la notte a piangere, mi sentii una madre fallimentare.
E la sua esperienza di nonna?
Bella, bellissima, decisamente più semplice di quella di mamma, avendo meno responsabilità, ma non meno emozionante. Tuttavia, spesso si creano dinamiche scomode tra il mio ultimo figlio e i miei primi tre nipoti, che sono più grandi di lui. Quando uno ruba un giocattolo all’altro, mi domando: a chi devo dare ragione? A mio figlio o a mio nipote? Mio figlio è nato già zio e quando gli chiedono chi è la sua mamma, lui risponde: “la nonna è la mia mamma”.
Dopo aver rivestito un ruolo tanto importante che cosa fa oggi?
Al termine della carica di Rivlin, il neo Presidente Herzog mi ha chiesto se volevo continuare a lavorare per lui, ma ho rifiutato. Oggi mi dedico di più alla famiglia, lavoro in una società di hi-tech, faccio un dottorato alla Hebrew University a Gerusalemme e realizzo il sogno di quando ero ragazza: insegno.
La sua carriera attuale la soddisfa come quella precedente?
No, ma credo di essere in un’altra fase della vita, e mi va bene così. Dentro di noi abbiamo tante identità e io mi rispecchio in tutte. Non avevo alcuna ambizione di diventare ciò che sono diventata, eppure sono convinta che nulla capiti per caso. È Dio che mi ha voluta in quella posizione e io ho assecondato il suo volere, cercando di svolgere il mio lavoro al meglio.
Signora Ravitz, non possiamo salutarci senza parlare di politica. Durante la presidenza Rivlin lei è stata una delle donne più influenti del Paese. Eppure, se non fosse stato per gli incontri con il Papa e con Biden, il suo nome non sarebbe mai emerso. Spesso prendeva decisioni di ordine internazionale, ma sempre dietro le quinte. Se oggi lei volesse entrare a far parte di un partito ultraortodosso, non potrebbe, perché le donne non sono ammesse. Cosa dovrei dedurne? Che le donne ultraortodosse possono cambiare il mondo solo se lontane dalla luce dei riflettori?
Credo che lei stia traendo una conclusione sbagliata.
Non crede che una donna debba avere l’opportunità di rivestire il ruolo di parlamentare per conto di un partito ultraortodosso?
Personalmente credo che un cambiamento sia necessario, ma credo che non debba venire dall’esterno, bensì dall’interno. Nessuno può decidere per conto nostro cosa sia giusto e cosa sia sbagliato fare. Sono i nostri rabbini a dover decidere per noi, e io mi fido di loro. Se preferiscono non avere donne in politica, mi va bene così.
Non vorrebbe essere lei la promotrice di questo cambiamento?
Penso di aver cambiato molti aspetti della realtà israeliana nei miei anni alla Knesset, ma credo che questa sia una battaglia che non mi spetta. Certamente sarei molto felice se i miei figli studiassero la matematica e l’inglese a scuola, oltre che la Ghemarà, ma sono ancora più felice che loro facciano parte del mainstream ebraico ultraortodosso. Ed ecco il motivo per il quale credo che lei stia traendo una conclusione sbagliata: io non cambierei la mia realtà e la mia comunità per nulla al mondo. Io sono ultraortodossa per scelta, felice e fiera di essere tale.