Il dolore dietro un silenzio assordante dei potenti. La lettera dei familiari dei 6 ostaggi israeliani assassinati

Israele

di Redazione
La mattina del 7 ottobre 2023 si svegliava sotto un cielo azzurro, limpido, come se nulla potesse minacciare la serenità di quella giornata. Ma per centinaia di famiglie israeliane, quella mattina ha segnato l’inizio di un incubo che avrebbe sconvolto le loro vite per sempre. I terroristi di Hamas sono entrati nelle loro esistenze come un vento impetuoso, spazzando via la pace, rapendo 251 persone e lasciando una scia di devastazione.

Tra questi ostaggi c’erano sei persone – Carmel, Almog, Alexander, Eden, Hersh e Ori – che oggi non ci sono più. Sono stati tenuti prigionieri per 328 giorni, torturati e infine giustiziati brutalmente a un passo della salvezza. Le loro famiglie, dopo mesi di agonia, hanno deciso di rompere il silenzio con una lettera toccante pubblicata dal Time Magazine che rivela dettagli strazianti e dolorosi, mai prima resi pubblici.

Ma non si tratta solo di una cronaca di sofferenza. È una denuncia vibrante, un appello al mondo affinché non si limiti a guardare accompagnato dal profondo disappunto nei confronti dei leader israeliani, accusati di aver sacrificato i loro cari per «calcoli ritenuti strategici». Tuttavia, le loro critiche non si fermano ai confini di Israele, ma si estendono principalmente alla denuncia dell’ipocrisia di molti politici, diplomatici, magnati, uomini d’affari e celebrità ovunque, più preoccupati della propria immagine che della sorte degli ostaggi, nonché dell’inerzia di organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa Internazionale e l’OMS. A ciò si aggiunge il resoconto degli incontri tra i familiari e i leader religiosi musulmani, i quali, pur assicurando in privato che l’Islam proibisce di fare del male agli ostaggi, rimasero pubblicamente in silenzio.

«I nostri cari sono stati uccisi non solo da Hamas, ma anche dal fallimento collettivo di coloro che avrebbero potuto salvarli e non lo hanno fatto». Così inizia l’articolo, portando subito a galla il cuore di un dolore che va oltre la perdita: l’amarezza per le occasioni mancate, per le promesse non mantenute. Ogni parola sembra scavare nel profondo della coscienza di chi legge, obbligando a riflettere su quanto spesso, davanti alla tragedia, il mondo scelga il silenzio.

Il tunnel dell’orrore

Il tunnel dove sono stati ritrovati i sei ostaggi uccisi da hamas
Il tunnel a Gaza dove sono stati ritrovati i corpi dei 6 ostaggi israeliani

Le forze israeliane hanno trovato i corpi emaciati dei sei ostaggi due giorni dopo la loro esecuzione, in un tunnel angusto scavato 20 metri sotto terra, nascosto sotto la camera di un bambino a Gaza. Un luogo che sembra incarnare l’abisso in cui erano stati gettati i loro destini: uno spazio stretto, largo poco più di mezzo metro e alto 1 metro e 68 centimetri, soffocante, buio e senza via di fuga. «Immaginate i vostri figli, i vostri fratelli, rinchiusi lì, senza aria, senza luce, senza speranza scrivono i familiari . Non potevano più essere salvati dal mondo esterno, eppure, anche fuori da quel tunnel, c’era chi ha scelto di non vedere, di non agire».

Questa descrizione non è solo una rappresentazione di un orrore e delle terribili condizioni fisiche in cui si trovavano, ma diventa un simbolo più ampio: il tunnel è una metafora del silenzio globale che ha circondato la loro prigionia, il vuoto delle promesse fatte e mai mantenute.

La battaglia persa con il tempo

Per quasi un anno, i familiari di questi ostaggi hanno fatto il possibile per mobilitare le istituzioni mondiali, i leader religiosi, le celebrità. «Siamo andati ovunque, abbiamo parlato con chiunque avesse potere: politici, diplomatici, leader religiosi, star del cinema – raccontano nella loro lettera –. Ci hanno promesso aiuto, ci hanno abbracciato, hanno pianto con noi… E poi ci hanno abbandonato».

Questo sentimento di abbandono è uno dei pilastri emotivi più forti della loro testimonianza. Non è solo il dolore per la perdita irreparabile dei propri cari, ma anche la consapevolezza di un’umanità che spesso, davanti al male, sceglie di voltarsi dall’altra parte.

«Come abbiamo potuto credere che, con abbastanza pressioni, il mondo avrebbe agito? Avevamo fiducia che la sofferenza umana avrebbe mosso i cuori. Ma ci sbagliavamo».

La fame e la tensione incessante

Alexander, un uomo alto quasi 1 metro e 80, aveva perso più di 25 chili durante la prigionia. «L’hanno ridotto a 60 chili», scrivono i familiari. Hersh, il più alto di tutti, pesava appena 52 chili quando è stato trovato. Eden, una giovane donna di appena 1 metro e 65, era scesa a 36 chili. Le loro condizioni fisiche testimoniano una lenta agonia, un corpo che si spegne a poco a poco mentre le speranze si affievoliscono.

«Non erano solo prigionieri di Hamas si legge nella lettera . Erano prigionieri dell’indifferenza mondiale».

Un appello al futuro

La lettera, seppur devastante, non è solo uno sfogo di dolore, ma un invito alla responsabilità. «Ci sono ancora 101 ostaggi vivi a Gaza scrivono i familiari . Non lasciateli morire come i nostri cari. Non lasciate che il mondo fallisca ancora una volta». Questo appello, che riecheggia il famoso detto del rabbino Hillel, «Se non ora, quando?», è un grido disperato per l’azione, per evitare che altre vite vengano spezzate.

«I nostri cari non torneranno mai più – concludono i familiari. Ma potete ancora salvare gli altri. E se potete, dovete».

Un monito per il mondo intero

La storia di Carmel, Almog, Alexander, Eden, Hersh e Ori è una ferita aperta nel cuore dell’umanità. La loro sofferenza non è solo la loro, è il riflesso di un mondo che troppo spesso fallisce di fronte alle tragedie. La lettera dei loro familiari ci sfida a guardare in faccia le nostre responsabilità, a non essere complici con il nostro silenzio.

In un’epoca in cui le informazioni viaggiano veloci e le promesse vengono fatte con facilità, il loro appello ci ricorda che la vera azione richiede coraggio. Il coraggio di non dimenticare. Il coraggio di parlare quando il mondo tace. E soprattutto, il coraggio di agire, prima che sia troppo tardi.