di Aldo Baquis
Concepito in origine come “Esercito di popolo’’ da pionieri di estrazione socialista, Tsahal (acronimo delle forze armate israeliane) si sta forse trasformando adesso in un “Esercito ebraico”: più legato cioè alla ortodossia.
Per i vecchi quadri un “segnale di allarme’’ è giunto la scorsa estate quando – all’inizio della campagna di terra contro Hamas – il comandante della brigata di fanteria Ghivati, Ofer Winter, ha esortato i suoi soldati a lanciarsi contro «quanti maledicono il Tuo Santo Nome, oh Signore». Finora in questi termini non si era espresso alcun comandante dell’esercito, che fu guidato a suo tempo da figure entrate ormai nel Pantheon israeliano, come Moshe Dayan e Yitzhak Rabin.
Su Ofer Winter – un ufficiale cresciuto nelle istituzioni nazional-religiose -, si è abbattuto un ciclone di critiche e perplessità. Ma il suo non è stato un caso isolato. Di ritorno da Gaza, e diretta verso le alture del Golan, anche una unità della leggendaria brigata di fanteria Golani ha ritenuto opportuno fare tappa a Gerusalemme, al muro del Pianto, per una preghiera di ringraziamento all’Altissimo.
In precedenza c’erano state anche polemiche perché militari educati in istituzioni nazional-religiose si erano rifiutati di ascoltare – durante cerimonie militari -, il canto di soldatesse, ed avevano chiesto di essere esentati da situazioni in cui non potevano “mantenere la propria modestia’’. D’altra parte, da un po’ di tempo a questa parte, la presenza dei giovani cresciuti nei collegi nazional-religiosi è sempre più importante nelle unità combattenti. Cifre alla mano: negli scontri di Gaza, un caduto su dieci portava la kippà all’unicinetto che li contraddistingue. Adesso, qualcuno si chiede se la loro sempre più ponderosa presenza fra gli ufficiali delle unità combattenti rappresenti un jolly per le forze armate, oppure – come sostiene qualcuno – un pericolo per la democrazia di Israele.
Già nel 2005, con il ritiro da Gaza, la questione si era posta in tutta la sua drammaticità quando l’esercito e la polizia israeliani furono chiamati a rimuovere dalle loro abitazioni ottomila coloni che da decenni vivevano nella Striscia. Il timore era che ufficiali e militari originari delle colonie della Cisgiordania dessero la priorità ai dettami dei loro rabbini e si rifiutassero di obbedire agli ordini di sgombero dei vertici militari. In quella occasione sia l’esercito sia la leadership dei coloni dettero prova di responsabilità e dunque furono evitati i temuti spargimenti di sangue. Ma in questi dieci anni gli emissari del movimento dei coloni hanno moltiplicato gli sforzi per assicurarsi posizioni di responsabilità nelle gerarchie militari. Adesso il loro peso specifico è molto cresciuto.
In un recente dibattito di esperti, il ricercatore Amir Bar Or (un ufficiale della riserva), ha addirittura evocato il rischio di un putsch, di un colpo di mano. Nelle colonie della Cisgiordania, ha rilevato, i giovani sono spronati sistematicamente ad assumere posizioni di comando nell’esercito, proprio per rendere più difficili eventuali futuri ritiri territoriali, o anche lo smantellamento di singoli insediamenti.
Questa evoluzione, secondo Amir Bar Or, è tanto più preoccupante perché è legata, secondo lui, allo sviluppo di un fondamentalismo ebraico che vede in Tsahal non più l’esercito “di popolo’’ concepito da Ben Gurion (che sarebbe dovuto servire come un grande melting pot, per amalgamare i diversi strati sociali israeliani), quanto “un esercito ebraico’’.
Sono parole in codice, secondo Bar Or, che in quella particolare cultura – quella dei collegi rabbinici delle colonie -, significano che in futuro l’esercito dovrebbe assoggettarsi alla ortodossia rabbinica forse più che agli ordini dei generali e quadri militari.
Applaudito in una sala dove erano raccolti numerosi ufficiali della riserva, il suo intervento ha invece indignato la radio dei coloni, Canale 7. Israele, ha replicato, dovrebbe invece rallegrarsi della abnegazione dei ragazzi nazionalisti religiosi che la scorsa estate a Gaza sono accorsi in prima linea sotto al fuoco di Hamas, in una percentuale superiore alla loro media nazionale.
Uno dei caduti – il tenente Hadar Goldin -, ha ricevuto una attenzione particolare perché durante la guerra a Gaza è stato dato per rapito da Hamas. In seguito è stato comunque possibile celebrare i suoi funerali: e gli israeliani hanno fatto così una conoscenza postuma con un giovane talentuoso e poliedrico, che aveva brillato sia negli studi religiosi, sia nella dura vita militare, sia nella coltivazione delle arti. “Era proprio come re David’’, avrebbe detto con ammirazione uno dei suoi insegnanti.
Secondo Canale 7, l’evoluzione in corso nell’esercito – di cui il tenente Goldin è stato solo uno di diversi esempi -, non è frutto di alcuna cospirazione politica, ma accompagna un processo avvertibile in altri settori di Israele. Ad esempio: nella magistratura, nell’accademia, nei mezzi di comunicazione di massa, e nello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno, che vede ai suoi vertici un nazional-religioso). Anche nella politica la presenza dell’avanguardia militante del movimento dei coloni è sempre più marcata. Ne fa da alfiere Naftali Bennett, il leader del partito Focolare ebraico (ex Partito nazional-religioso) che è ormai uno dei più consistenti e dinamici del Paese. Nessuna cospirazione, nessun putsch – assicurano i mezzi di comunicazione legati alla destra religiosa (anch’essi peraltro in fase di espansione). A loro giudizio è piuttosto in corso un normale avvicendamento di elites. Quella storica, laica e laburista, è condannata a loro avviso ad uscire di scena per fare spazio alle nuove elites che – almeno nell’esercito -, giungono non solo dalle colonie ma anche dai ceti proletari delle cittadine periferiche.
«Chi ha sempre viaggiato nell’ultimo vagone – spiega un esponente religioso – vuole ora raggiungere la locomotiva». Le elezioni politiche del 17 marzo saranno una buona occasione per verificare la fondatezza di queste argomentazioni.
(Twitter: @aldbaq)