di Aldo Baquis, da Tel Aviv
Una società frammentata. Un Paese attraversato da forti disparità economiche e malcelate tensioni sociali. Come è accaduto con gli etiopi, dopo l’uccisione del giovane Salomon Teqah. Qual è allora il nuovo identikit dello Stato ebraico? Una terra di tribù: russi, francesi, africani ma anche laici, ortodossi, nazional-religiosi, arabo-israeliani…
È successo nei primi giorni di luglio ma gli echi ancora non si sono spenti. Una rissa fra giovani in un sobborgo popolare di Haifa, un agente in borghese che cerca di sedarla, due proiettili che fendono l’aria e un ragazzo di 18 anni, Salomon Teqah, che stramazza a terra; gli sforzi per rianimarlo, vani. All’indomani, ai funerali, la comunità degli israeliani originari dell’Etiopia si presentò in massa. E quando finirono, Israele era in fiamme. Decine di migliaia di dimostranti di famiglie originarie dell’Etiopia bloccarono incroci stradali in tutto il Paese paralizzando il traffico., attaccando agenti e passanti, lanciando sassi e bottiglie incendiarie, bruciando automobili, assaltando la polizia. Col passare delle ore si conteranno un centinaio di feriti fra agenti, dimostranti e passanti trascinati nei disordini.
un sogno in frantumi
È un’esplosione di violenza sociale fra le più gravi nella storia del Paese. Ai più anziani ricorda i moti sociali di Wadi Salib (Haifa) del 1959 e le violente proteste delle Pantere Nere a Gerusalemme nei primi anni Settanta. Allora in prima fila erano ebrei sefarditi proletari in lotta con un establishment laburista controllato da burocrati ashkenaziti, reputato insensibile alle loro necessità. Adesso la protesta viene dai Beta Israel (sono noti anche come Falasha, ma questo termine è da loro ritenuto spregiativo), immigrati tre decenni fa in due avventurose e commoventi ondate dall’Etiopia. Nei loro confronti il Likud ha saputo compiere i medesimi errori.
Gli anziani dei Beta Israel avevano vissuto l’immigrazione in Israele come la realizzazione di un’utopia cullata per generazioni. Ma nel frattempo quel sogno è andato in frantumi e adesso i loro giovani si lanciano con rabbia contro la polizia per denunciare fenomeni di esteso razzismo di cui si sentono vittime.
Pregiudizi e razzismo
Ancora oggi non è chiaro se l’agente che ha sparato a Teqah (e che poi è stato costretto a riparare in una località segreta per proteggersi da ritorsioni e da minacce di morte), abbia agito per legittima difesa. Ma sta di fatto che altri israeliani originari dall’Etiopia sono stati colpiti a morte da agenti di polizia negli ultimi anni. «Per la polizia – denunciano i portavoce della protesta – siamo sospetti a priori, ovunque andiamo». Rapporti governativi confermano che nei loro confronti c’è un “eccesso di polizia’’. Confermano anche la necessità di lottare contro i pregiudizi nei loro confronti presenti nel sistema educativo e nel mondo del lavoro.
Destano clamore quei rabbini ortodossi i quali, dubitando del reale “ebraismo” dei Beta Israel, negano il certificato di Kashrut a prodotti alimentari se confezionati da ebrei di origine etiope. Da un lato singoli esponenti della comunità hanno fatto carriera: nello sport, nella musica, nelle forze armate, nella politica, fra gli avvocati. Ma a lato esiste anche un razzismo latente, che “non fa notizia”. Ad esempio, la dottoressa di origine etiope impiegata in un ambulatorio della mutua che nota che i malati le preferiscono dottori di carnagione bianca; gli epiteti di “sporco nero” che possono giungere talvolta dal conducente di autobus o da un superiore nell’esercito. Umiliazioni quotidiane che scavano in profondità. A luglio, fra quanti sono scesi nelle strade per affrontare la polizia, c’erano anche adulti e casalinghe.
Le quattro tribù di Rivlin
Ancora una volta Israele si interroga in quale direzione si stia evolvendo la società e quale sia la portata reale di queste e altre lacerazioni. Un segnale di allarme era giunto già nel 2015 in un celebre discorso pronunciato dal capo dello Stato Reuven Rivlin, un esponente dell’ala “liberale” del Likud. La società molto omogenea del primo Israele, aveva notato Rivlin, è relegata al passato e sarebbe inutile abbandonarsi a nostalgie. Ai suoi occhi emergeva piuttosto una società divisa grosso modo in quattro tribù. La prima, quella degli israeliani laici, sta perdendo terreno dal punto di vista demografico. Si estendono invece le altre tre: quella degli ebrei ortodossi, quella degli ebrei nazional-religiosi e quella degli arabi. Ciascuna di esse è caratterizzata da pecularietà culturali, sociali e politiche spesso antitetiche. Se uno le esamina al loro interno, infatti, entra in un ginepraio. Se prendiamo la “tribù araba”, ad esempio, dovrebbe essere suddivisa a sua volta in: musulmani, drusi, beduini, circassi, cristiani. Ad essi si aggiungono poi i palestinesi di Gerusalemme est e i drusi siriani del Golan, che hanno uno status differente. Sono tutti molto diversi tra loro per cultura, religione, status economico e visione politica.
Similmente anche i laici israeliani sono molto variegati, così come si vede dalle loro preferenze politiche (35% per la destra, 46% per il centro, 19% per la sinistra, secondo la ricerca di Mintz).
Esaminando il voto, poi, vediamo uno spiccato sostegno alla sinistra a Tel Aviv, Haifa e nei kibbutzim. Gli ebrei immigrati dalla Russia sono in prevalenza laici e di orientamento di destra, così come sono nazionalisti anche molti degli olim, il cui voto è analogo a quello dei sefarditi israeliani. Lo stesso vale, in generale, anche per quelli di origine francese; forse non è così per tutti, ma spesso quelli che si esprimono sui media sono piuttosto nazionalisti e anche il loro voto è analogo a quello dei sefarditi israeliani. La sfida per il futuro di Israele è dunque di armonizzare tutte queste “tribù”, per quanto possibile, intervenendo subito per smussare le contraddizioni.
I divari sociali e ideologici
L’entità del problema balza agli occhi. Secondo una ricerca curata due anni fa per il Centro Interdisciplinare di Herzlya dal professor Alex Mintz e da altri, le condizioni di vita negli insediamenti ebraici in Cisgiordania sono significativamente migliori che non nelle città di Israele, e queste sono a loro volta molto superiori a quelle delle località arabe o ortodosse. Negli insediamenti c’è più occupazione, gli stipendi sono più elevati, gli investimenti pubblici più generosi, le classi meno affollate. Chi vive in località arabe o ebraico-ortodosse può solo sognare quell’agio economico. Più preoccupanti ancora le lacerazioni ideologiche fra le quattro tribù. I partiti di sinistra sono sostenuti dal 19% dei laici, dal 2% dei nazional-religiosi, dal 4% degli ortodossi e dal 46% degli arabi. I partiti di centro godono del sostegno del 46% dei laici, del 10% dei nazional-religiosi, del 24% degli ortodossi e del 50% degli arabi. I partiti di destra piacciono al 35% dei laici, all’88% dei nazional-religiosi, al 72% degli ortodossi e al 3% degli arabi. E quanti vorrebbero la fine della occupazione israeliana in Cisgiordania? L’84% degli arabi, il 13% degli ortodossi, il 7% dei nazional-religiosi e il 34% dei laici.
Pur importante per fini analitici, la distinzione di Rivlin circa le quattro tribù è stata oggetto di aspre critiche, in particolare dai nazional-religiosi. Includendo gli arabi fra le “tribù di Israele” – osservano – egli parla di fatto di uno “Stato di tutti i cittadini” (come lo intendeva Yitzhak Rabin) e di non di uno “Stato ebraico”.
Secondo questi critici, gli arabi devono beneficiare di tutti i diritti dei cittadini di Israele, ma non possono essere considerati “una tribù”. Semmai, aggiungono, la “quarta tribù di Israele” dovrebbe essere composta dagli ebrei della Diaspora.
Scissione, una “malattia” antica
Mentre il dibattito accademico-ideologico prosegue, è uscito in queste settimane un libro significativo: La marcia della follia ebraica di Amotz Asa-El, un editorialista del Jerusalem Post e del Jerusalem Report, nonchè un ricercatore dell’Istituto Shalom Hartman di Gerusalemme, un centro accademico dedicato all’approfondimento del pensiero del popolo ebraico, che si distingue per il pluralismo delle voci al suo interno. Il libro ha sùbito fatto scalpore. A maggio Haaretz gli ha dedicato una pagina intera, accompagnata da una recensione lusinghiera di A.B. Yehoshua. Da allora il libro continua a suscitare echi, commenti e dibattiti, sulla stampa e alla televisione. Come Rivlin, anch’egli suona l’allarme. La debolezza della coesione nazionale e la suddivisione in tribù ostili fra di loro è – secondo Asa-El – una malattia da cui il popolo ebraico non è mai riuscito a guarire, per la quale di volta in volta ha pagato prezzi elevati. In antico, con Re Saul, la tribù di Benyamin aveva cercato di plasmare una coesione nazionale, ma la tribù di Yehuda (con David e Salomone), ha poi imposto il proprio predominio sulle altre, suscitando reazioni violente e nuove scissioni. Asa-El descrive con sofferta partecipazione le guerre fratricide fra le tribù di Israele. Per chi legge i giornali israeliani le somiglianze sono evidenti: sono cambiati i confini geografici, ma le ostilità fra la tribù laica che oggi abita la fascia costiera e le tribù nazional-religiose e ortodosse che popolano Gerusalemme e le alture della Giudea-Samaria (Cisgiordania) ricordano per certi versi quelle di tremila anni fa. La diagnosi è lampante. La malattia delle scissioni tribali resta in agguato e la coesione dello Stato nazionale democratico di Israele non va data per scontata.
Le tribù di Israele ai tempi dei primi re biblici
Una cartina delle tribù di Israele all’epoca dei primi Re è utile per comprendere meglio la situazione oggi sul terreno. La tribù di Benyamin è la strisciolina azzura all’altezza di Gerusalemme, una zona rocciosa e inospitale. Non a caso re Saul è un pastore. In quelle terre (fra Gerusalemme e Ramallah oggi) non avrebbe potuto fare altrimenti. Però è un politico: proprio perché le sue dimensioni sono minime, Benyamin – spiega l’editorialista Asa-El – si vede come la tribù più idonea a lavorare all’unità delle tribù di Israele. Ma la tribù di Yehuda (Giudea), che si estende fino al sud di Israele comprendendo Hebron e Betlemme, è una delle due potenze ebraiche, e vuole comandare. Dunque David non accetta la supremazia di Benyamin. Vuole comandare lui, per tutti. Funziona ancora con Salomone. Ma subito dopo si spacca tutto. Da allora il regno di Giudea (a sud) si confronterà con il regno di Israele (nel nord della Cisgiordania). Secondo Asa-El adesso la frattura è fra chi abita sulla costa e chi abita sulle alture della Cisgiordania. Le linee geografiche sono mutate, ma i sintomi della malattia divisiva e della lotta per la leadership compaiono di nuovo, immutati.
Israele, la rabbia degli ebrei etiopici diventa musica
Nuove parole e suoni contro la repressione e il razzismo
Una rissa di rione, un agente che sfodera la pistola ed un adolescente di origine etiopica – Salomon Tekah – che stramazza morto a terra con un proiettile nel petto. All’indomani, in Israele il traffico è paralizzato da decine di migliaia di israeliani originari dell’Etiopia che protestano contro la polizia e contro fenomeni di razzismo di cui si sentono vittime. E subito la rabbia diventa musica di protesta dei giovani ‘afro-israeliani’. Ancora poche settimane fa i loro nomi (Abate Berihun, Tamar Radah, Jeremy Cool Habash, Gili Yalou) erano sconosciuti. Per ascoltarli bisognava frequentare piccoli locali nelle cittadine del ‘secondo Israele’ (Lod, Bat Yam, Natanya), o attendere festival di musica indy. Adesso invece, sull’onda delle rivolta nelle strade, sono invitati negli studi televisivi più ambiti. La loro musica (in ebraico, in amarico o in inglese) è entrata anche nella radio nazionali. L’israeliano medio si avvicina così alle radici della violenta protesta di questo mese: alla frustrazione di chi si è affacciato al mondo ai margini della società, marchiato dal colore della propria pelle, sempre sotto l’occhio sospettoso dei guardiani dell’ordine pubblico. “Mi vogliono arreso, con le manette ai polsi – denuncia il rapper Teddy Neguse. – Diecimila occhi mi seguono. In me vedono solo il colore, mi sospingono ai margini. Poi le prove le faranno scomparire, proprio come con Salmasa”. Nei testi tornano con insistenza i nomi di Yosef Salmasa, Yehuda Biadga e Salomon Tekah: tre di dodici adolescenti di origine etiopica morti negli ultimi dieci anni in ruvidi contatti con la polizia. E con loro torna ricorrente l’incubo del ‘taser’, la pistola elettrica degli agenti. “Ricordo le pazze corse notturne per sfuggire alla ‘pistole-Volt’ – canta Ofek Adanek – corse per la sopravvivenza, rapidi come Usain Bolt”. “Non sparare, Israele” invoca un altro rapper, stravolgendo il versetto biblico “Non temere, Israele”. L’immigrazione in Israele degli ebrei di Etiopia (Beta Israel, in amarico, o Falasha) era iniziata negli anni Novanta come un sogno utopico. “Eravamo ragazzi delle dune, guardavamo le stelle, eravamo sognatori” canta Jeremy Cool Habash in una canzone intitolata: ‘Israeliani nervosi’. L’utopia si e’ infatti infranta: la realtà di Israele ha mortificato i più anziani, ma ha temprato la nuova generazione. Che nella musica cita artisti etiopici, il rythm and blues, il reggae, il hip-hop e il grove. Ne emerge un mix energico e frizzante. Una di loro, Esther Rada, ha spiccato il volo nel mercato internazionale. In Israele è significativa la carriera del sassofonista Abate Berihun che è nato in Etiopia dove è cresciuto ascoltando Charlie Parker e John Coltrane e suonando musica nazionale locale. Immigrato in Israele, ha fatto il lavapiatti. Oggi però ha sfondato e ora accompagna Ehud Banai, una star della musica israeliana. “Lo dico sempre – conclude la ‘afro soul singer’ Aveva Dese – che la musica può sconfiggere il razzismo, può favorire l’eguaglianza e cambiare il mondo’’.