di Avi Shalom, da Tel Aviv
Una maggioranza risicata, con anime troppo diverse. E così, dopo un anno di acrobazie, il governo Bennett si è sfaldato.
A novembre si vota per la quinta volta in tre anni. Ma ancora una volta, il “collante” dei politici è solo uno: sbarrare la strada
a Netanyahu. Che è sempre più popolare
Il primo novembre Israele torna al voto, per la quinta volta in tre anni. Visto a volo d’uccello, il Paese è spaccato in due culture politiche di medesime dimensioni, divise da una ostilità profonda. Né una né l’altra sono in grado di dar vita a un governo dotato di una maggioranza stabile. Nel giugno 2021 il nazionalista moderato Naftali Bennett ha cercato di guidare una coalizione eterogenea, basata su ben otto liste diverse: di centro, di destra e di sinistra. Per la prima volta ha anche incluso nella maggioranza il partito islamico Raam. Ma alla Knesset aveva una maggioranza risicata e dopo 12 mesi di acrobazie, piroette e contorcimenti il governo si è sfaldato. Il Paese è retto da quanto resta di quella coalizione, guidata dal centrista laico Yair Lapid, mentre il partito di Bennett (Yemina) si è sfaldato del tutto. Ora il Paese va avanti a forza di inerzia, guidato da un premier a mezzo servizio che non può prendere iniziative importanti né nella sicurezza, né in economia, né in campo sociale. La situazione sarebbe più confortante se i sondaggi indicassero almeno che dopo novembre lo stallo politico sarà finalmente superato, che allora si formerà un governo netto: di destra, oppure di centro. Ma capace di sopravvivere per una legislatura intera di quattro anni. Invece i pronostici prevedono un nuovo pareggio sostanziale. E nemmeno si esclude la eventualità di seste elezioni. Lo scoraggiamento, specialmente fra i giovani, è diffuso. La classe politica si dimostra non all’altezza della situazione.
Uno sviluppo dovrebbe sicuramente destare allarme: la confusione generale nei corridoi della Knesset viene infatti registrata con attenzione nella Regione. I Paesi degli accordi di Abramo – pur inorriditi dall’ipotesi di un Iran nucleare – hanno perso lo slancio di un anno nella riappacificazione con Israele. Hamas e la Jihad islamica hanno innescato una linea più marcata di opposizione, con una lotta armata di erosione contro Israele sia da Gaza, sia in Cisgiordania. Il presidente palestinese Abu Mazen comprende fin troppo bene che il vuoto di idee a Gerusalemme esclude dal prossimo futuro qualsiasi ipotesi di soluzione politica. E peraltro, a 87 anni di età di cui 16 passati alla guida della Autorità nazionale palestinese, il presidente palestinese pensa più che altro a restare a galla. Al nord di Israele gli Hezbollah stanno accentuando la propria presenza militare al confine fra Libano e Israele e in Siria a ridosso delle alture del Golan. Hanno messo da parte 100-150 mila razzi di vario genere con cui minacciano di mettere a ferro e fuoco l’intero territorio israeliano, nonché i suoi giacimenti di gas naturale nel Mar Mediterraneo. E da Teheran giungono minacce quasi quotidiane nei confronti della “entità sionista”.
Alla ricerca di una mitica
“Unità nazionale”
Non pochi analisti politici avvertono la gravità del momento. Uno di questi è Ari Shavit, ex columnist di Haaretz caduto in disgrazia e ora analista nel quotidiano della “intelligenzyà” nazional-religiosa Makor Rishon. La parola chiave, nella sua visione, è “mamlachà”: il concetto della visione dello Stato. Di una entità a cui tutte le forze politiche dovrebbero fare riferimento, e per il cui bene supremo dovrebbero rinunciare a parte delle proprie istanze. “Mamlachà” era la bacchetta magica usata, a suo tempo da David Ben Gurion, per superare le feroci lacerazioni interne maturate fra destra e sinistra nella lotta clandestina contro il Mandato britannico. Ma nei decenni il concetto si è eroso e ormai i partiti sembrano sempre più interessati a difendere con le unghie e con i denti i propri interessi immediati, anche a scapito dell’interesse generale dello Stato. “Dobbiamo dar forma – ha fatto appello Shavit a luglio – ad una ‘mamlacha’ di sostanza, basata su impegni profondi e sinceri da parte delle forze politiche. Occorre determinazione. E se necessario, sacrifici”. Gli esempi – ha argomentato Shavit – non mancano certo. Giugno 1948: Menachem Begin non rinunciò forse a rispondere al fuoco quando forze fedeli a Ben Gurion mandarono a picco, di fronte a Tel Aviv, la nave Altalena, che clandestinamente portava armi alla destra nazionalista ebraica? E nel giugno 1967, il premier laburista Levy Eshkol non compì forse un “gesto eroico” quando incluse nel governo il leader della destra nazionalista Begin, perché Israele si presentasse in piena coesione alla guerra dei sei giorni? Shavit continua ad elencare i gesti nobili di coesione nazionale: prende ad esempio il settembre 1984, quando il laburista Shimon Peres e il leader del Likud Yizthak Shamir (ex dirigente del gruppo clandestino nazional-rivoluzionario Lekhy, irriso dal Mandato britannico come “la Banda Stern”) formarono un governo di unità nazionale che salvò in extremis il Paese da una bancarotta. Altro esempio: la drammatica estate del 2005, quando seimila coloni della striscia di Gaza accettarono di lasciare, senza impugnare le armi, le proprie case su ordine del premier Ariel Sharon, allora in fase di graduale distacco dal Likud.
“Al momento della verità, in quelle e altre occasioni, emerse una leadership nazionale” conclude Shavit. Perché la cosa non potrebbe ripetersi adesso?
Il fattore Netanyahu,
ovvero la radicalizzazione del Likud
La cosa non si ripeterà, viene osservato da più parti, perché in queste elezioni la posta in gioco appare essere appunto la “mamlacha”: il concetto di Stato. Impegnato in un processo per corruzione, frode e abuso di potere, Netanyahu da anni ha assunto un atteggiamento di radicale antagonismo verso il potere giudiziario. Da partito liberal-conservatore qual era all’epoca di Begin e Shamir, dal 2015 il Likud ha via via maturato una vocazione nazional-populista visceralmente ostile alle élite, reali o presunte tali. Fa eccezione per i poteri economici forti, verso i quali resta invece ossequioso.
In questa campagna elettorale la retorica dei deputati del Likud concentra le critiche verso il sistema giudiziario, dalla Corte Suprema di Gerusalemme in giù. La tesi centrale è che il processo a Netanyahu – tuttora in corso, in una atmosfera rovente – è stato architettato a tavolino per estrometterlo dalla politica.
Un anticipo dei progetti del Likud è giunto da un suo dirigente, David Amsalem, che spera di essere nominato ministro della Giustizia se il partito uscirà vincente dalle elezioni. La Knesset, ha precisato alla televisione Canale 13, promulgherà una legge in base alla quale la Knesset potrà tornare a votare una legge che sia stata annullata dalla Corte Suprema. Le nomine dei giudici saranno prerogativa di esponenti politici. I ministri, ha aggiunto, potranno nominare nei loro dicasteri consiglieri legali di propria fiducia. Secondo alcuni osservatori, è prevedibile inoltre che il Likud chiederà di congelare il processo a Netanyahu fintanto che questi svolga la carica di premier.
Parole di allarme sono giunte dall’ex premier laburista Ehud Barak. “Negli ultimi anni – ha scritto su Yediot Ahronot – Netanyahu è uscito di controllo. I suoi collaboratori qualificano come ‘traditori’ tutti i suoi rivali. La sua ‘macchina del veleno’ (un termine coniato da Lapid per caratterizzare l’insieme globale dei messaggi diffusi sul web da siti e da influencer vicini all’ex premier, A.B.) è impegnata a denigrare tutti i rivali, con sistemi che ricordano quelli del crimine organizzato piuttosto che una campagna politica legittima’’. La sottomissione del potere giudiziario al volere dei politici va vista con allarme, secondo Ehud Barak, anche perché “in Israele non c’è una costituzione, né esistono i check and balances del sistema politico statunitense’’.
Fra le forze laiche centriste i timori verso il “nuovo Likud” sono cresciuti ulteriormente quando Netanyahu ha fatto ricorso al proprio peso politico per indurre due liste di destra radicale (entrambe filo-Likud) a unirsi fra di loro in vista delle elezioni di novembre. Si tratta del Sionismo religioso di Betzalel Smotrich, espressione del movimento dei coloni, e di Otzmà Yehudit (Potenza ebraica) guidata da Itamar Ben Gvir. Questi è un discepolo del rabbino Meir Kahane, l’ideologo del movimento di estrema destra e xenofobo Kach che fu dichiarato organizzazione terroristica nel 1994 (dopo la strage di palestinesi alla Tomba dei Patriarchi di Hebron compiuta dal colono Baruch Goldstein).
Dice Barak: “Gli slogan ‘No a Bibi’ e ‘No a Ben Gvir’ non sono una ossessione, o una espressione di fede. No: sono appelli che nascono dal buon senso, da una lettura ponderata della realtà e della dinamica pericolosa che il patto fra quei due metterebbe in moto. Sono un appello a fissare una linea precisa fra quanti credono in un governo di sostegno razionale alla ‘mamlacha’, e un patto di carattere oscuro fra corruzione e messianesimo’’. Secondo Barak nel Likud ci sono anche correnti molto diverse. “Una volta che Netanyahu non fosse più alla sua guida, il Likud – conclude – potrebbe essere un alleato legittimo per ogni coalizione governativa”.
Intanto però il Paese va altrove. Nei sondaggi il Likud è di gran lunga il partito preferito dagli israeliani, mentre i laburisti guidati a suo tempo proprio da Barak rischiano di non entrare affatto in parlamento. E Netanyahu – malgrado il processo (e forse paradossalmente proprio grazie ad esso) – resta indiscutibilmente il personaggio politico più popolare in Israele.