di Sofia Tranchina
Che viaggiare in Israele sia costoso, lo può constatare un qualsiasi turista sin dall’atterraggio all’aeroporto di Ben Gurion, salendo su uno dei taxi che portano in città. “Ma finché si tratta di una settimana di ferie – si dirà tra sé e sé – fa niente”.
La questione diventa gravosa quando la quotidianità stessa dei cittadini è afflitta, tutto l’anno, da prezzi più alti di quanto il salario medio possa ragionevolmente consentire, rendendo la vita un vero salasso.
E in questo, Israele si è conquistato un imbarazzante primato: i dati dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development) del 2022 lo collocano al primo posto come “Paese sviluppato con il costo della vita più alto” – con prezzi del 38% più alti rispetto alla media degli altri membri – seguito da Svizzera, Islanda, e USA.
L’indice comparativo analizza le differenze misurando i prezzi al consumo e il rapporto tra parità di potere d’acquisto e tassi di cambio di mercato (non tiene però conto delle oscillazioni del valore del Nuovo Shekel Israeliano).
I prezzi di alcuni beni di prima necessità, tra cui latte, pane e formaggio, arrivano in Israele fino al 70% in più rispetto agli altri stati membri.
Monopoli e mancanza di concorrenza
L’esagerato costo della vita è causato in buona parte da una esagerata concentrazione dei mercati in mano a grandi monopoli, che, assicurandosi diritti esclusivi di importazione e distribuzione, determinano i prezzi dei prodotti senza temere concorrenza.
I settori più colpiti sono quello alimentare e quello dei beni per la casa.
Secondo i dati pubblicati dal Times of Israel, l’azienda Schestowitz, grazie ai diritti su marchi Palmolive, Colgate, Elmex, Neutrogena, Barilla, e Alpro, controlla circa il 66% del mercato dei dentifrici, il 52% del mercato delle salse per pasta, e il 32% del mercato delle bevande di soia, oltre ad essere importatrice esclusiva di marchi di moda quali Abercrombie and Fitch, Burberry, Calvin Klein e Jimmy Choo.
L’azienda Diplomat, invece, detiene il monopolio di Oral B, Gillette, Toblerone, Oreo e Pringles, tra gli altri, e controlla circa l’81,5% del mercato degli shampoo antiforfora e l’80% del mercato dei rasoi.
Se nasce una concorrenza, ovvero si fanno strada importatori paralleli che cercano di introdurre prezzi più competitivi, i monopoli già installati impiegano le proprie forze per osteggiarne il successo, ritardando l’arrivo delle merci e prendendo con i marchi accordi diretti che puzzano di illecito.
Cosa comporta la mancanza di concorrenza? Ad esempio, una confezione da 16 lamette di rasoio Gillette Fusion costa 46,60$ in Israele, contro i 15,85$ negli Stati Uniti, e un tubo da 100 ml di dentifricio Colgate Optic White costa 6,70$ in Israele, rispetto ai 2,40$ negli Stati Uniti. E a sommarsi alla scarsità di concorrenza nazionale, la concorrenza dall’estero – che potrebbe far scendere i prezzi – è limitata da «formidabili barriere all’importazione».
Il capo economista del Ministero delle Finanze, Shira Greenberg, ha parlato dell’applicazione del 17% di IVA su tutti gli articoli ordinati online da rivenditori esteri, (come Amazon e Ali Express), per raccogliere liquidità per ripagare il deficit del paese.
La concentrazione del mercato non porta solo a prezzi elevati ma anche a una minore scelta per i consumatori israeliani, oltre ad esasperare il divario tra la ricchezza di poche famiglie e la povertà del resto della popolazione.
Possibili soluzioni
Per contrastare i monopoli, è nata nel 2015 l’organizzazione no-profit Lobby99, che raccoglie fondi per esercitare pressioni sul governo e sulla Knesset per conto della popolazione indignata.
Uno strumento semplice ed efficace, spiega al TOI il dottor Karnit Flug (ex governatore della Banca d’Israele e attualmente vicepresidente dell’Israel Democracy Institute) sarebbe spingere per strategie di trasparenza dei prezzi.
Infatti, attualmente i principali importatori, poiché sono aziende private, non sono obbligati a rendere pubblici i rendiconti finanziari.
La trasparenza dei prezzi permetterebbe ai consumatori di comprendere le differenze di prezzo tra i prodotti in Israele e negli altri Paesi e di essere più proattivi nelle decisioni di acquisto, boicottando le aziende che impongono prezzi al di fuori del potere d’acquisto medio.
Ron Tomer, presidente dell’Associazione Israeliana dei Produttori, davanti ai dati OECD ha chiesto «un’immediata riduzione dell’aliquota IVA sui prodotti alimentari al livello accettato in Europa», e anche un sostegno diretto per l’agricoltura israeliana. Inoltre, ha aggiunto, «se il governo vuole ridurre il costo della vita, deve ridurre i prezzi di elettricità, acqua, tasse sulla proprietà, e carburante. Il governo non può da un lato aumentare drasticamente le tariffe e dall’altro aspettarsi che i prezzi scendano».
La maggioranza dell’opinione pubblica ritiene che l’alto costo della vita sia colpa principalmente dell’inazione del governo. Solo il 27% attribuisce la responsabilità ai grandi monopoli, mentre il 3.5% attribuisce la responsabilità ai produttori locali, agli importatori o alle catene di supermercati.
Secondo un sondaggio condotto dal Panels Politics Institute il 48% degli israeliani ritiene che la questione più importante che la Knesset e il governo debbano affrontare in via prioritaria sia l’alto costo della vita, molto più della riforma giudiziaria del governo (22%), della sicurezza personale (14%) o dell’Iran (10%).
La Legge per la Promozione della Concorrenza e Riduzione della Concentrazione
Guardando al quadro da lontano, si può apprezzare il generale progresso di Israele nell’ultimo decennio. Dopo le forti proteste sociali del 2011, che hanno portato centinaia di migliaia di israeliani a protestare nelle strade di tutto il Paese contro i dieci maggiori gruppi imprenditoriali, la Knesset ha approvato nel 2013 la Legge per la Promozione della Concorrenza e Riduzione della Concentrazione.
La legge definisce “monopolio” un’impresa commerciale che controlla più del 50% del mercato, e vieta alle aziende di detenere società finanziarie (banche e assicurazioni) per un valore superiore a 11,6 miliardi di dollari, nonché società non finanziarie con entrate superiori a 1,8 miliardi di dollari.
Inoltre, le riforme degli ultimi 15 anni nel mercato delle telecomunicazioni hanno abbassato significativamente i prezzi degli operatori di telefonia mobile, considerato ora un settore competitivo: «in alcuni settori sono stati compiuti molti progressi nel ridurre la concentrazione e nel rafforzare la concorrenza. In altri settori c’è ancora del lavoro da fare».
Ancora tanta strada da fare
Nochi Dankner, azionista maggioritario della Israel Discount Bank e fondatore e presidente del Gruppo Ganden, nel 2017 è stato condannato a tre anni di carcere per frode in titoli per un piano volto a gonfiare il prezzo delle azioni della sua società. Shaul Elovitch, azionista di Bezeq, è implicato per un (presunto) accordo illecito con il primo ministro Benjamin Netanyahu, che si sarebbe occupato delle esigenze commerciali di Elovitch in cambio di una copertura positiva nel suo sito di notizie di Walla.
Le banche israeliane sono state smascherate per essersi alleate con i magnati concedendo prestiti fuori misura e cancellandone centinaia di milioni di shekel di debiti, per poi riequilibrare i libri contabili facendo pagare di più ai clienti abituali per i servizi finanziari di tutti i giorni.
Ma i critici lamentano che ancora il governo non ha dimostrato una reale volontà di opporsi ai monopoli. Le multe inflitte sono poca cosa per colossi come la Coca Cola, e le grandi aziende hanno schiere di avvocati ed economisti che minano la fiducia delle autorità nella loro capacità di sporgere denuncia.
Su una cosa sono tutti d’accordo: servono leggi antitrust più efficaci.
Netanyahu, accusato di essersi concentrato troppo sui piani di revisione giudiziaria, trascurando invece l’aumento dei prezzi e i reali problemi del momento, ha risposto annunciando la formazione di un comitato ministeriale per affrontare l’alto costo della vita, composto da 13 ministri per la supervisione di: finanza, economia, agricoltura, protezione ambientale, energia, sanità, welfare, servizi religiosi, alloggi, sviluppo del Negev e della Galilea, turismo, immigrazione e comunicazioni.
Ma il discorso è ancora più ampio: il professor Dan Ben-David, direttore dello Shoresh Institute for Socio-Economic Research, spiega che «la metà dei bambini israeliani oggi riceve un’istruzione da terzo mondo (e sono tra i gruppi di popolazione in più rapida crescita)», il che significa che «non hanno gli strumenti per lavorare in un’economia globale competitiva, né la comprensione di cosa significhi vivere e mantenere una moderna democrazia liberale».
(Foto in alto: Wallpaperflare.com)