di Michael Soncin
Francesca Levi-Schaffer racconta il miracolo della campagna vaccinale in Israele, la più rapida al mondo. Iniziata in dicembre, a metà febbraio quasi quattro milioni di israeliani erano già vaccinati, con risultati eccellenti sul piano della protezione dal Covid 19. Ma come ha fatto lo Stato ebraico a conseguire questo successo? Esperienza e allenamento nella gestione dei rischi, logistica collaudata e una diffusa medicina territoriale
Israele è il primo paese al mondo per il numero di persone vaccinate in rapporto alla popolazione e per la rapidità con cui ha conseguito questo record. Mentre in Italia, ahimè, continua il balletto del chi-deve-fare-cosa, in Israele, a tempo record, la vaccinazione di massa sarà completata in tutta la nazione. E i risultati sono significativi e incoraggianti: i dati raccolti dal Ministero della Salute israeliano, pubblicati a metà febbraio sulla rivista scientifica Nature, dimostrano che c’è stato un calo del 41 per cento delle infezioni da Covid-19 confermate per gli ultra sessantenni e un calo del 31 per cento dei ricoveri da metà gennaio all’inizio di febbraio. Un calo del 94 per cento dei casi sintomatici di Covid è stato rilevato fra quanti sono stati immunizzati col vaccino Pfizer. Lo ha rilevato una ricerca condotta dalla cassa mutua israeliana Klalit, confermando così risultati analoghi raccolti in precedenza dalla cassa mutua Maccabi. La Klalit – precisa la stampa israeliana – ha raccolto dati fra 1,2 milioni di israeliani, solo metà dei quali erano stati vaccinati. È così risultato che l’efficacia maggiore del vaccino si registra a partire da una settimana dopo la somministrazione della seconda dose. Il calo dei casi sintomatici di Covid – dice il Jerusalem Post – è del 94 per cento e il calo dei casi gravi di malattia è del 92 per cento. L’efficacia del vaccino resta elevata in tutte le fasce di età dai 16 anni in su, inclusi gli ultra settantenni. Il ministero della sanità ha intanto confermato che, a metà febbraio, hanno ricevuto una prima dose di vaccino 3,9 milioni di israeliani (su un totale di oltre nove milioni). Di questi, 2,5 milioni hanno avuto anche la seconda dose. Di questa straordinaria performance abbiamo parlato con Francesca Levi-Schaffer, la scienziata italo-israeliana che è stata, a fine gennaio, ospite della trasmissione televisiva Che tempo che fa.
Una vita intensa, quotidianamente impegnata nella ricerca; docente di farmacologia e immunofarmacologia presso la facoltà di medicina dell’Università Ebraica di Gerusalemme, membro del comitato del Ministero della Salute Israeliana.
Qual è il segreto del record israeliano? «Il merito di Israele – racconta – è la velocità con cui sono state somministrate le vaccinazioni. Un fattore determinante è stato riuscire ad acquistare immediatamente il vaccino, dopo aver visto che le cose nel mondo, per la diffusione della pandemia, andavano male». Israele sarà anche il primo paese, attraverso il monitoraggio delle persone vaccinate, a fornire tutti i risultati alle aziende produttrici di farmaci (estremamente utili per gli studi di fase 4). E i primi dati sono assai promettenti. «Israele – dice Levi-Schaffer – è un laboratorio a cielo aperto, costituito da una popolazione multietnica ma ben definita, una peculiarità che attrae le case farmaceutiche, e non solo per il Covid-19, ma in generale. Si eseguono numerosi studi clinici, avendo la possibilità di una facile e immediata rielaborazione dei dati, perché tutto è registrato e collegato nei database, con la completa documentazione digitale di tutte le malattie che il paziente ha avuto nel corso della sua vita, dei farmaci e delle vaccinazioni che ha effettuato.
È un big data fantastico».
L’asso nella manica non è solo la velocità, ma anche la prontezza unita alla gestione del rischio, frutto degli insegnamenti del passato. «Il prepararsi a fronteggiare la minaccia del terrorismo ha concretamente aiutato per questa pandemia. Tutto è stato organizzato nel migliore dei modi, grazie all’allenamento che risale alle minacce del passato, come per esempio quando, a tutto il paese, sono state fornite maschere antigas per proteggerci da Saddam Hussein, perché c’era il rischio che mandasse missili con testate chimico-batteriologiche. Con l’avvento del Covid-19 c’è stata una distribuzione capillare delle mascherine, dei test per la rilevazione del coronavirus, e più recentemente delle vaccinazioni in tutti i posti possibili: scuole, università, ospedali, tendoni, per la strada, nei supermarket, fino ad improvvisati drive-in.
L’esercito ha aiutato a montare i tendoni, a distribuire i dispositivi di sicurezza, prestando attenzione che la gente rispettasse le giuste distanze preventive nelle file».
VACCINO? SÌ, GRAZIE!
Ma la popolazione israeliana ha manifestato dubbi nel sottoporsi al vaccino? «La maggior parte della popolazione è favorevole alla vaccinazione, sono pochi i no-vax. Qui si vuole vivere, e non con il senno di poi, ma adesso. Soprattutto i giovani, vogliono viaggiare, e grazie al passaporto verde è possibile farlo, senza dover fare la quarantena quando si rientra dall’estero. Non sono una psicologa, ma l’esperienza di Israele con la guerra, continuamente esposto al rischio del terrorismo, ha messo gli abitanti nella condizione di voler essere certi del presente e a non volere aspettare. Se il vaccino è disponibile, lo fai, senza tergiversare. Infatti, la maggior parte delle persone è corsa subito. Il rischio di reazioni avverse può esserci, ma è bassissimo e questo vale non solo per questo vaccino, ma per tutti i farmaci che assumiamo quotidianamente. Devo dire che gli arabi e gli ultraortodossi sono le popolazioni che per diverse motivazioni non si vogliono vaccinare e costituiscono il 50 per cento dei ricoverati».
In giro per il pianeta sul vaccino contro il Covid e le possibili cure sono sorte teorie complottiste di ogni tipo, comprese quelle antisemite. «È terribile la disinformazione; non so a chi sia dovuta, forse anche a qualche collega che vuole parlare di ciò che non sa, invece di dire, come Socrate ‘So di non sapere’». Fortunatamente, non tutti i haredìm sono contro la scienza e, come ha scritto il Times of Israel, anche il rabbino Yitzhak Neria ha proclamato che non accetterà nella sua yeshivà gli studenti che si rifiuteranno di vaccinarsi.
LE TERAPIE UTILIZZATE
Quali sono e in che modo si scelgono le principali terapie farmacologiche utili nel contrastare le complicanze del Covid-19? «L’iter è sempre lo stesso: quando arriva una malattia nuova, il procedimento è quello di utilizzare medicine già esistenti per altre patologie simili, per vedere se funzionano anche su di essa.
All’inizio si utilizzava come in tutto il mondo, l’idrossiclorochina, un farmaco che in realtà abbassa anche la febbre, può essere un antivirale, ma come si è dimostrato non lo era contro il Covid-19.
Una svolta è stata prima l’utilizzo dell’anticorpo contro il recettore della interleuchina-6, fatta anche in Italia e suppongo anche nel resto del mondo; e poi la cosa più semplice e a costi contenuti – poiché gli anticorpi monoclonali sono estremamente cari – è stato dare i glucocorticosteroidi come il desametasone per limitare le complicanze della malattia. In questo momento, altre medicine, anche sperimentali, indirizzate sia alle complicazioni del covid, sia antivirali sono in corso di ricerca».
Uno di questi sembra essere la molecola del farmaco EXO-CD24, messo a punto da un gruppo di ricercatori del Sourasky Medical Center di Tel Aviv. Sul Jerusalem Post si legge che lo studio è ancora agli inizi e dai primi test condotti, su un campione di 30 pazienti (un numero piccolissimo per potere dare una risposta certa), 29 hanno dimostrato un netto miglioramento nell’arco di un paio di giorni.
UN NUOVO STUDIO
Oltre agli studi al Weizmann, la professoressa Levi-Schaffer ha speso due anni ad Harward e nel 2015 è stata Visiting Professor in Italia, presso l’Humanitas University, collaborando col professore Alberto Mantovani. Ad oggi ha pubblicato oltre 160 articoli peer – reviewed (cioè che hanno superato la revisione di altri scienziati dello stesso campo di ricerca ndr).
In veste di ricercatrice, sta in questo periodo lavorando a uno studio contro il Covid-19. «Già da marzo dell’anno scorso, l’Accademia delle Scienze Israeliana, con il Ministero della Sanità, ha stanziato dei fondi destinati agli scienziati per fare ricerche di base, finalizzate a tentare di trovare nuovi metodi per fermare il virus o mitigare le sue conseguenze. È stata fatta una selezione tra chiunque avesse delle idee, e io sono stata una delle prime che l’ha superata: la mia idea consiste nell’individuare, nei malati, un biomarcatore, legato all’insorgere e alla progressione della malattia e di vedere come fermarlo. Lo studio è stato condotto su 100 soggetti. La ricerca è attualmente confermata da un ulteriore studio sui polmoni dei pazienti deceduti a causa del Covid-19, ma per dire di più è ancora presto. La ricerca sta proseguendo e sto effettuando verifiche e approfondimenti».
ISRAELE, IL POSTO GIUSTO PER ME
Quali sono state le ragioni che l’hanno spinta a trasferirsi in Israele?
«Uno dei motivi è perché, oggi come allora, sono sionista, e mi sembrava che, per una persona agnostica come me, Israele fosse l’unico posto adatto. Altrimenti mi sarei assimilata e questo non lo volevo. Inoltre, desideravo fare il dottorato di ricerca, e il mio professore, Rodolfo Paoletti, della Facoltà di Farmacia di Milano, mi consigliò di andare in America, ma poi in seconda battuta mi disse: ‘Essendo ebrea, perché non vai in Israele all’Istituto Weizmann che è un ottimo centro di ricerca?’. E così è stato. L’ho reputata un’ottima soluzione, potendo unire al contempo scienza e sionismo. Prima mi ha mandato come studentessa durante la Summer School, mi è piaciuto moltissimo e ho capito che questo era il posto giusto per me». Ma ci sono altre motivazioni: quelle di un’ostilità nei confronti degli ebrei, in Italia come in molte altre parti del mondo. «Io sono di centro-sinistra; a Milano da ragazza ho cominciato a sentire l’antisionismo da parte della sinistra, come il chiaro antisemitismo della destra. Al Liceo Parini, quando frequentavo la seconda liceo classico, sono stata assalita e picchiata nei bagni della scuola dai neofascisti; sui muri hanno scritto ‘ebrei ai forni’. Quelli di sinistra mi hanno difeso, ma al contempo erano gli stessi che alle loro manifestazioni esclamavano ‘Al-Fatah vincerà’ e altre frasi di questo tipo; quindi vi era anche in loro un antisemitismo, ma mascherato in veste di antisionismo. Addirittura alcuni neofascisti, non quelli che mi avevano preso di mira, mi facevano la corte con frasi del tipo ‘ah, gli israeliani sono forti’. Come ebrea non mi sono più sentita bene in questo ambiente, il mio cognome è Levi, ne sono sempre stata fiera e infatti ho sempre detto di essere ebrea!».
Da “E pur si muove” di Galileo a “Eppur funzionano” (i vaccini) di oggi
L’astrofisico israeliano Livio contro l’antiscienza
“E pur si muove!”. È la celeberrima frase che si presume sia stata pronunciata da Galileo Galilei dopo essere stato processato davanti al Sant’Uffizio nel 1633 per avere sostenuto la teoria copernicana eliocentrica. Dalla Chiesa le scuse arrivarono il 31 ottobre del 1992, ben 359 anni dopo, quando già da due anni sopra i nostri occhi, nel 1990 era stato lanciato il pronipote del cannocchiale – il telescopio spaziale Hubble – ideato dall’astronomo e filosofo pisano. L’astrofisico israeliano Mario Livio ha lavorato a lungo al programma del telescopio spaziale Hubble, ancora oggi in funzione, che nel corso degli anni ci regalato stupende immagini del cosmo. Livio nel suo libro, parlando di Galileo, ci fornisce una nuova chiave di lettura. Percorrendo le grandi scoperte e intuizioni dello scienziato italiano ci porta a riflettere sulle attuali vicende antiscientifiche, dai sostenitori del terrapiattismo, allo scetticismo su vaccini che ‘eppure funzionano’.
Il trattato Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, causò a Galileo non pochi problemi; ma tra tutti i suoi scritti in esso raccolti, quello del metodo sperimentale è forse il più prezioso, poiché tale metodo è tuttora il procedimento con il quale ogni scienziato dal globo osserva, formula, sperimenta e arriva ad una conclusione finale, la stessa con la quale si dimostra l’efficacia di un farmaco o un vaccino: con dati e prove oggettive. “Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato”. È quanto disse Albert Einstein – frase che si collega al metodo galileiano-, un altro grande scienziato i cui studi, a causa dell’antisemitismo, vennero definiti dai nazifascisti frutto di plagio o privi di buon senso. Ed uno dei capitoli è proprio dedicato ai pensieri di Einstein, su scienza e religione, messi a specchio con quelli di Galileo. Leggere il libro di Livio è illuminante; porta anche a riflettere sull’attuale deleteria divisione tra il sapere umanistico e quello scientifico. Oggi abbiamo bisogno più che mai di un neoumanesimo-illuministico.
Mario Livio, Galileo – Contro i nemici del pensiero scientifico, Rizzoli, pp. 395, euro 20,00, ebook disponibile.