di Luciano Assin
C’è gran fermento all’interno del movimento dei kibbutzim. La segreteria della federazione che raggruppa più di 270 villaggi collettivi, ha dato ufficialmente il via ad un reclutamento generale per impedire o ostacolare la decisione del Governo Netanyahu di espellere decine di migliaia di profughi e immigranti clandestini presenti in Israele e provenienti per lo più dall’Eritrea e dalla regione del Darfur nel Sudan.
I kibbutzim si stanno organizzando su diversi fronti: raccolta di viveri di prima necessità, accoglienza di piccoli gruppi ed assunzione nel campo lavorativo. Inoltre si sta lavorando per creare una struttura di adozione parziale destinata ad una fascia di età particolarmente sensibile. Si tratta di ragazzi nati, cresciuti ed educati in Israele che diventati ormai maggiorenni sono anche loro passibili della possibile espulsione.
La popolazione del movimento è minima rispetto alla popolazione israeliana, si tratta di 130mila persone a dispetto di più di 9 milioni di israeliani. Ma i kibbutzim hanno sempre dimostrato di essere in grado di raggiungere risultati molto superiori al loro numero quando riescono a mobilitarsi in un unico scopo comune. In ogni caso si parla di persone rispettose delle leggi che non hanno assolutamente in mente di opporsi fisicamente contro le forze dell’ordine. Il principale mezzo di lotta si baserà quindi sulla dispersione dei profughi lungo tutta la nazione, ostacolando così il loro fermo.
“Ci troviamo di fronte ad un esame morale ed etico” ha affermato il segretario generale del movimento, Nir Meir, “un esame che non possiamo fallire, la storia ci giudicherà per le nostre azioni in un momento così critico”. Per il momento lo scadere dei primi visti concessi ai vari immigrati illegali scadrà il primo aprile, una data tristemente ironica visto che il 30 Marzo si festeggerà il Pesach, la Pasqua ebraica, la festa della libertà che ricorda la fuga degli ebrei dall’Egitto dei Faraoni.
I kibbutzim non potranno certo riuscire ad ospitare gli oltre 40mila africani presenti nel paese, ma oltre a molte organizzazioni di cittadini privati che si sono mobilitate per lo stesso scopo i kibbutzim intendono reclutare anche ambasciate ed atenei, istituzioni dove vige l’extra territorialità. Al proposito sono state rivolte richieste a paesi come la Spagna, Portogallo, Norvegia e Svezia.
Nonostante il governo Netanyahu continui ad affermare che è perfettamente legale espellere persone entrate illegalmente nel paese, la verità è che le autorità israeliane rendono la vita impossibile dal punto di vista burocratico a chi si dichiara profugo politico. Basti pensare che fino ad oggi sono state riconosciute come profughi soltanto 11 persone.
Se la mobilitazione di tutte le forze in campo andasse a buon fine si potrebbe arrivare senza grosse difficoltà alla classica quadratura del cerchio. La maggioranza schiacciante di questi “extra comunitari” israeliani vive nei quartieri sud di Tel Aviv, una zona da sempre considerata disagiata rispetto alle più ricche e signorili zone nord. Disperdere su tutto il territorio le decine di migliaia di clandestini presenti non farebbe che far ritornare alla normalità una realtà invivibile per i residenti di sempre.
In una società come quella israeliana dove la disoccupazione è praticamente nulla e si aggira sul 4,8%, c’è sempre bisogno di manodopera in settori come agricoltura, edilizia, servizi alberghieri e assistenza alle persone anziane.
La differenza fra il saggio e l’intelligente consiste nel fatto che il primo non entrerà in una trappola dalla quale il secondo riuscirà ad uscirne. Netanyahu ha due mesi di tempo per dimostrare come preferisce essere ricordato nel campo dei diritti umani e come mantenere i rapporti diplomatici dello Stato Ebraico col resto dei paesi democratici. Uno stato che è stato costruito fra l’altro dalle centinaia di migliaia di profughi scampati alle persecuzioni naziste ed arabe, ma coscienti da sempre del loro spessore morale di fronte a tutta l’umanità.