di David Zebuloni, da Israele
In Israele vi è una generazione intera che non ha idea di cosa voglia dire vivere in un paese non governato da Benjamin Netanyahu. Abituati da quasi due decenni a vedere il suo volto fiero e sentire la sua voce baritonale, risulta quasi impossibile apprendere che questa notte il premier in carica ha dovuto cedere la poltrona. L’ha fatto controvoglia, certo, non prima di essersi gettato in un ultimo disperato tentativo, eppure, contro ogni previsione, l’era Netanyahu è arrivata al capolinea.
Come sempre, però, andiamo per ordine: al termine della prima settimana del mese di maggio, il presidente Reuven Rivlin ha affidato il mandato a Yair Lapid, capolista del partito Yesh Atid, nel tentativo di formare un governo di maggioranza. Missione quasi impossibile se consideriamo il blocco disomogeneo che si è ritrovato, a partire dai partiti di destra ed estrema destra (Yenima, Tikva Hadasha, Israel Beitenu) fino ad arrivare a quelli di sinistra ed estrema sinistra (Avoda, Meretz). Come se ciò non fosse già abbastanza complicato, Lapid, per ottenere i 61 mandati necessari a formare un governo, doveva integrare alla coalizione anche Mansour Abbas, capolista del partito arabo Raam.
Da allora i colpi di scena sono stati all’ordine del giorno. Nell’arco dell’ultimo mese, infatti, abbiamo assistito a proposte improbabili, unioni effimere e voltafaccia dolorosi. Tutto pur di favorire o di impedire la formazione di un nuovo governo. Lapid ha proposto a Bennett un governo condiviso con rotazione. Netanyahu ha rincarato la dose, proponendo sia a Bennett che a Saar la presidenza condivisa con una rotazione annuale. Tre primi ministri al prezzo di uno.
Tutto inutile: il sogno dei 61 mandati pareva lontano anni luce per entrambi. L’eventualità di una quinta tornata elettorale, invece, più vicina che mai. Tuttavia, la politica israeliana ci insegna che in un attimo tutto può cambiare ed ecco che, un’ora prima della restituzione del mandato, alle ore 23:00 del 2 di giugno, Yair Lapid ha annunciato al mondo di Twitter: “Sono riuscito a formare un governo”. Il Presidente uscente Rivlin si trovava in quel momento allo stadio, impegnato a guardare il derby tra il Maccabi Tel Aviv e l’Hapoel Tel Aviv. La notizia gli è stata riferita al telefono, tra un coro da stadio e l’altro.
Israele ha dunque un nuovo governo. Un governo sotto certi aspetti storico e rivoluzionario. Perché? Beh, innanzitutto poiché è sorto dopo il mandato interminabile di Netanyahu, più lungo persino di quello di David Ben Gurion. Poi, poiché per la prima volta nella storia dello Stato di Israele, nello stesso giorno è stato nominato sia un nuovo Primo Ministro che un nuovo Presidente (il noto Yitzhak Herzog, già Presidente della Jewish Agency). Inoltre, per la prima volta in assoluto, a governare insieme a Lapid vi sarà un co-premier con soli 6 mandati. Parliamo ovviamente di Naftali Bennett, il primo tra i due a presiedere la Knesset nel governo di rotazione. Infine, ma non per importanza, per la prima volta dalla fondazione dello Stato di Israele ad oggi, vi sarà anche un partito arabo al governo: il partito Raam, guidato dall’enigmatico Mansour Abbas.
Tanti sono i piccoli e grandi stravolgimenti che lasciano presagire una nuova era per lo Stato Ebraico. Un periodo che fungerà da spartiacque e segnerà il pre e il post governo Netanyahu, nonché potrà inaugurare un nuovo modo di fare politica: dal nuovo format di governo di rotazione, al nuovo presupposto di governo che supera le barriere della destra conservativa e della sinistra liberale. Oppure il connubio Lapid-Bennett potrà rivelarsi un fallimento totale, durare pochi mesi prima dell’ennesimo scioglimento e bruciare precocemente le carriere politiche di entrambi loro.
Una cosa sola è certa: un nuovo capitolo della storia dello Stato di Israele sta per essere scritto.