di Avi Shalom
Migliaia di persone sono scese in piazza negli ultimi mesi per manifestare contro il Governo e contro Netanyahu accusato di corruzione e frode. Ma al momento di compattarsi per presentare liste e programmi per le elezione del 23 marzo, le forze di sinistra si sono dimostrate litigiose e inconcludenti. Il risultato? I “padri fondatori” dello Stato non hanno eredi
Dopo aver influenzato in maniera determinante i primi decenni del Paese, alle elezioni del 23 marzo 2021 la Sinistra israeliana si presenta a ranghi ridotti, in un clima di scoraggiamento di fronte ad una società sempre più impregnata da parole d’ordine d’impronta nazionalista o religiosa. A Destra, c’è un ipermercato di partiti e di movimenti: si va dal Likud di Benyamin Netanyahu a Nuova speranza del fuoriuscito Gideon Saar, da Yemina di Naftali Bennett al Sionismo Religioso di Naftali Smotrich e Itamar Ben Gvir, da Israel Beitenu di Avigdor Lieberman agli ortodossi del Fronte della Torah di Moshe Gafni e di Shas del rabbino Arye Deri. Nei sondaggi si stima che a marzo questi partiti – pur divisi sul ruolo guida di Benyamin Netanyahu – possano raccogliere fino a 80 dei 120 seggi della Knesset. Con una ventina di seggi al partito centrista Yesh Atid di Yair Lapid e una decina di seggi alla Lista araba unita, la sinistra laica di Israele, quella che ha gettato le fondamenta dello Stato e che lo ha influenzato in maniera preponderante la storia d’Israele nei primi decenni, dovrà adesso accontentarsi delle briciole. In termini grafici, se nel 1992 per trasportare alla Knesset tutti i deputati che sostenevano apertamente Yitzhak Rabin sarebbero occorsi due torpedoni, oggi per i parlamentari di quelle liste basterebbero due taxi.
Per chi ha vissuto in Israele i mesi che hanno fatto seguito alla composizione, nel maggio scorso, del governo di unità nazionale del Likud col partito Blu Bianco di Benny Gantz, questa prospettiva desta come minimo meraviglia. Perché in questi mesi la Sinistra era scesa in piazza con determinazione e anche con manifestazioni di grande fantasia, denunciando se fosse lecito lasciare alla guida del Paese chi come Benyamin Netanyahu era incriminato di corruzione, frode e abuso di potere. Per mesi, ogni sabato sera, masse di dimostranti si sono raccolte attorno alla residenza del premier nella via Balfour di Gerusalemme, invocandone le dimissioni. Era dalle proteste sociali della torrida estate del 2011 che non si vedevano nelle strade del Paese folle così decise ad imporre alla classe politica le proprie parole d’ordine. Irrisi e denunciati dai portavoce del premier (“Anarchici, gente strampalata, diffusori di malattie”) questi dimostranti non hanno certo avuto vita facile. Spesso ci sono stati scontri con la polizia, con contusioni, fermi e arresti. Ci sono stati anche attacchi fisici, condotti da sostenitori del premier. Eppure la protesta si è estesa: di sabato su molti cavalcavia si affollavano, sventolando le bandiere nazionali, picchetti di dimostranti di tutte le età. Sul web giravano anche immagini di anziani, ripresi all’ingresso delle loro case di riposo, che esponevano cartelli di dura protesta contro il premier.
In molte immagini di queste proteste troneggiavano anche grandi modelli di sottomarini: allusioni polemiche a una indagine arenatasi col tempo su presunti illeciti nell’acquisto di sottomarini tedeschi ordinati da Netanyahu dopo aver tenuto all’oscuro – per motivi mai spiegati fino in fondo – il ministro della difesa Moshe Yaalon. Nell’estate e nell’autunno 2020, dunque, nelle strade del Paese c’è stata una vera esplosione di energia e di attivismo politico. Ma al momento di organizzarsi per le nuove elezioni – le quarte in meno di due anni – le forze di sinistra sono rimaste smarrite. Per cercarne le ragioni si potrebbero indicare due responsabili diretti. Il primo è Benny Gantz, il leader centrista che un anno fa aveva acceso le speranze di molti simpatizzanti di sinistra quando assicurava che non sarebbe mai entrato in un governo guidato da Netanyahu, per poi unirsi al Likud in un governo congiunto. Una mossa che ha spaccato il suo partito e lo ha lasciato alla mercè del leader politico più stagionato di Israele. Il secondo responsabile della debacle è il leader laburista Amir Peretz che aveva assicurato che mai avrebbe aderito ad un governo Netanyahu e che pure vi ha fatto ingresso in cambio di un incarico marginale.
Il loro opportunismo combinato alla loro singolare miopia politica ha dunque alimentato un senso di disorientamento fra quanti si riconoscono nella sinistra laica ebraica. In questa circostanza è riemersa poi una atavica tendenza al settarismo.
A gennaio ben quattro liste di sinistra sembravano determinate a contendersi il sostegno dei loro sempre più scarsi simpatizzanti: i veterani del Meretz; i laburisti (passati nelle mani della energica Merav Michaeli, dopo la defenestrazione di Peretz); una nuova lista del sindaco laburista di Tel Aviv Ron Huldai e un’altra lista del deputato Ofer Shelach. Questi ultimi due hanno poi deciso di rinunciare, avendo compreso che non avrebbero superato la soglia di ingresso alla Knesset. Se qualcuno pensava che, trovandosi con l’acqua alla gola, la Sinistra avrebbe scelto la strada della fusione ha dovuto ricredersi. In Israele non ci sono dissidi più furibondi di quelli fra partiti e movimenti che più o meno la pensano allo stesso modo.
Eppure l’imperizia politica e il protagonismo dei suoi dirigenti non bastano da soli a spiegare la deriva in cui versa oggi la Sinistra in Israele. Nei decenni, la morfologia del paese è cambiata: il Likud è da tempo il partito che gestisce il potere, con tutti i vantaggi pratici che ne conseguono. Sotto la guida del Likud, si è inoltre estesa l’area di influenza dei partiti ortodossi (circa il 12 per cento della popolazione) e degli israeliani negli insediamenti (ormai in Cisgiordania sono quasi mezzo milione). In quei settori, le forze di sinistra si sentono non gradite. Anche nei mass media spirano con crescente energia venti di sostegno alle tesi della Destra o del mainstream religioso. Inoltre negli ultimi mesi la richiesta della sostituzione di Netanyahu – il cavallo di battaglia dei dimostranti nelle strade – è stata avanzata anche da Gideon Saar, da Lieberman e in forma più pacata anche da Bennett. Hanno in pratica detto ai loro elettori che per loro è legittimo chiedere a Netanyahu di farsi da parte, e tuttavia restare schiettamente all’interno della destra nazionalista.
Sono passati 25 anni da quando Rabin indicava agli israeliani, nel contesto degli accordi di Oslo, la necessità di separarsi tempestivamente dai palestinesi della Cisgiordania (pur mantenendo una presenza militare sull’intero confine giordano). Voleva sventare il rischio che Israele diventasse un Paese binazionale, esteso dal Mar Mediterraneo al Giordano, con all’interno una minoranza etnica subalterna. Sulle pagine del mensile Liberal, l’opinionista Yonatan Shem-Ur ha lanciato adesso alla Sinistra un accorato appello, in extremis. “C’è una sola battaglia che si può e si deve combattere. Una sola bandiera che si deve sventolare. Il ritiro dai Territori, sulla scia di Yitzhak Rabin, Ehud Barak, Arik Sharon ed Ehud Olmert. Con un accordo, o anche senza. E la costituzione di uno Stato palestinese al fianco di Israele. Non ‘un giorno’. Non ‘quando ci saranno le condizioni’. La bandiera della ‘fine immediata della occupazione’ è non solo giusta, ma anche utile dal punto di vista strategico’’. Per impedire cioè alla Destra di consolidare il progetto dello Stato dal Mare al Giordano, che a suo parere è inconciliabile con l’ideale di Israele come Stato democratico e omogeneamente ebraico. Una missione titanica, per schiere che oggi sembrano più esigue ed incerte che mai.