di Sofia Tranchina
Lo Stato di Israele ha toccato il minimo storico della percentuale di abitanti ebrei dalla sua fondazione: il giorno dell’Indipendenza del 14 aprile 2021 è stata registrata in Israele una popolazione di 9.327 milioni di abitanti, di cui, seguendo la classificazione del Central Bureau of Statistics, solo il 73.9% sono ebrei, il 21.1% arabi (musulmani, cristiani, drusi), e il 5% rientrano nella categoria di ‘altri’ (principalmente cristiani non arabi e tutti coloro che non hanno la classificazione religiosa nella loro registrazione di residenza). Lo riporta un dettagliato articolo del Jerusalem post.
Lo Stato d’Israele non ha una religione ufficiale, in quanto nato dal filone del sionismo laico liberale di Herzl. La sua dichiarazione d’Indipendenza (letta da David Ben Gurion il 14 maggio 1948) dichiara infatti che il nuovo Stato «manterrà la totale uguaglianza sociale e politica per tutti i suoi cittadini, senza distinzione di religione, razza o sesso» e «garantirà la libertà di religione».
Ciononostante, come la stessa dichiarazione ricorda, l’Olocausto ha ai suoi tempi dimostrato l’urgenza di «risolvere il problema del popolo ebraico della mancanza di una casa nel mondo, ristabilendo uno Stato Ebraico (המדינה היהודית) che aprirà le porte a ogni ebreo». «Lo Stato d’Israele sarà aperto all’immigrazione ebraica (לעליה יהודית) da tutti i Paesi della diaspora. […] Chiediamo al popolo ebraico di tutta la diaspora di unirsi intorno all’Yshuv con l’aliyah».
Dunque, da quando è stato fondato, lo Stato d’Israele (o Stato Ebraico) ha sempre ospitato per la maggior parte una popolazione ebraica (già nel 1948 costituiva l’82.1%). Tuttavia la maggioranza di partenza, cresciuta fino a toccare la vetta dell’88.9% nel 1960, ha iniziato negli ultimi anni a ridursi vertiginosamente, fino a toccare, appunto, il 73.9% di oggi.
Tale progressiva riduzione del vantaggio iniziale è dovuta principalmente alla crescita demografica della popolazione araba: notoriamente, infatti, gli arabi fanno più figli degli ebrei. Secondo un censimento di trent’anni fa, gli ebrei israeliani facevano una media di soli 2,6 figli per donna, contro i 4,7 dei musulmani residenti in Israele e a Gerusalemme Est, e i 6 dei palestinesi (a Gaza e in Cisgiordania). Questo divario si è ridotto nel 2014, ma non si è livellato: 3,11 figli per donna tra gli ebrei, 3,17 tra gli arabi, 3,7 tra i palestinesi in Cisgiordania e 4,5 tra quelli a Gaza.
Che cosa succederebbe se questo trend continuasse fino a ribaltare le percentuali della popolazione su base etnica? Israele cesserebbe di essere uno Stato Ebraico e rischierebbe addirittura di cadere in una situazione in cui gli ebrei costituirebbero la minoranza. Questa è infatti tra le preoccupazioni maggiori che hanno portato Israele ad avanzare proposte (quali l’eventuale cessione di Gerusalemme Est e della Cisgiordania, offerte da Ehud Barak ad Arafat a Camp David nel 2000) nel tentativo di trovare un accordo per la creazione di uno Stato Palestinese. Non per nulla Yasser Arafat (Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese dal 1996 al 2004) dichiarava che «il ventre della donna palestinese è l’arma più potente del suo popolo».
La seconda causa del decremento demografico è scaturita dall’attuale stato pandemico, che ha scoraggiato quanti avrebbero desiderato fare aliyah e rallentato così l’immigrazione in Israele. Ma anche tra coloro che sono immigrati nel 2020, solo il 33.8% (record minimo) è di religione ebraica: la Legge del Ritorno, infatti, concede la cittadinanza a chiunque abbia almeno un nonno o un coniuge ebreo, o abbia conseguito la conversione presso una qualsiasi comunità ebraica riconosciuta, e dunque anche a chi non si qualifica come “ebreo secondo l’Halakhà”. Ciò è dovuto al fatto che tale Legge è stata redatta all’ombra dell’Olocausto, ed è stata pensata per dare rifugio a chiunque fosse dai nazisti considerato ebreo (e passibile di deportazione nei campi di sterminio).
Ma i “tempi cambiano e le leggi vanno aggiornate” e adeguate allo stato di cose: in merito a questa situazione, il direttore dell’IPC (Centro Israeliano per la Politica sull’Immigrazione) Yonatan Jakubowicz ha recentemente constatato la necessità di attutare una nuova politica di immigrazione, responsabile e strategica, per proteggere gli interessi Israele in quanto Stato ebraico e democratico.