di Giorgio Gomel
Continua il dibattito sulla legge Stato-Nazione varata dalla Knesset il 19 luglio. Un nuovo intervento dopo quelli di Giorgio Sacerdoti , Stefano Levi Della Torre, Alberto Corcos e Yitzchak Dees
Dopo anni di dibattito, dalla sfera dell’accademia e della riflessione filosofica all’agone politico e un lungo e controverso iter parlamentare, la Knesset ha approvato con 62 voti a favore e 55 contro la “legge della nazione”, una legge fondamentale con uno status quasi costituzionale. Israele diventerà in virtù della legge da “Stato ebraico e democratico” – un ossimoro secondo alcuni, un tentativo in parte almeno riuscito in questi 70 anni secondo altri di conciliare lo “Stato degli ebrei” concepito da Herzl e dai padri fondatori del sionismo, uno Stato cioè dove gli ebrei potessero autodeterminarsi in una nazione, fossero maggioritari e così padroni del proprio destino, con il principio di una democrazia per tutti i suoi cittadini – uno “Stato ebraico”. Il richiamo alla democrazia è ignorato, omesso.
La legge riflette lo spirito dei tempi: l’offensiva del radicalismo di destra, espresso dal partito “Casa ebraica” dei Ministri dell’istruzione Bennett e della giustizia Shaked e da parte ormai preponderante del Likud, specie nella generazione più giovane, con leggi volte a limitare la libertà d’espressione – soprattutto nel mondo delle ONG e dei movimenti dediti alla difesa dei diritti umani -, l’indipendenza del potere giudiziario, le norme della democrazia, in una società in cui larghi strati dell’opinione pubblica appaiono indifferenti o anche ostili ai vincoli dello stato di diritto e intolleranti del dissenso.
Ironicamente qualche giorno prima del voto Yousef Habareen, deputato della Lista araba unita, aveva presentato un disegno di legge che definiva Israele stato “democratico, egualitario e multiculturale”, con l’obiettivo di assicurare la piena eguaglianza fra ebrei ed arabi e di superare le forti discriminazioni che si frappongono a ciò nell’istruzione, nell’allocazione della terra per costruirvi case (il Fondo nazionale ebraico possiede tuttora il 13 % della terra che riserva ai cittadini ebrei), nel mercato del lavoro, nei servizi sociali.
Quali i punti cardine della legge ?
1 – Con Israele definito Stato-Nazione del popolo ebraico, il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei in contrasto con la Dichiarazione di indipendenza del ’48 che prescrive “.. completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso …”. Ciò significa disconoscere il fatto che vi è in Israele un’altra nazione o etnia che nulla potrà dire circa il carattere dello stato di cui i suoi membri – gli arabi – sono cittadini con pari diritti. Pari diritti individuali sì, ma non i diritti collettivi di una minoranza nazionale.
2 – L’arabo non sarà più seconda lingua ufficiale del paese, ma rivestirà uno status vagamente definito come “speciale”.
3- Gerusalemme (intera) è definita come capitale unita di Israele
4- Sarà compito dello Stato sviluppare e promuovere “insediamenti ebraici” come “valore nazionale”. Il termine “insediamento” è assai pregnante. Non si precisa dove – entro la Linea verde, nei territori? Questa clausola è una variante edulcorata di quella che, in versioni precedenti del disegno di legge, consentiva di “stabilire comunità separate sulla base della religione o dell’etnicità”, a cui si erano opposti con veemenza il Presidente Rivlin e il Procuratore generale Mandelblit, oltre a numerose organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti in un documento comune che critica una norma che rischia di discriminare non solo gli arabi, ma altre minoranze (immigrati, ebrei non ortodossi, musulmani, cristiani). La Segretaria del Meretz Zandberg ha affermato in un suo intervento: “La legge fondamentale è una legge razzista, una legge nata nel peccato e portata avanti dagli elementi ultra nazionalisti della coalizione di governo”.
5- Israele si adopererà nella Diaspora per preservare i legami fra esso e il popolo ebraico. Anche questa formulazione è frutto di un compromesso voluto dai partiti ultra-ortodossi che hanno preteso quella dizione – “nella Diaspora” – per evitare che si potesse altrimenti interpretare come un avallo al pluralismo religioso in Israele, in particolare a conversioni e matrimoni celebrati da rabbini riformati o conservative e ad accordi circa spazi egualitari di preghiera al Muro del pianto.
Il dualismo fra “ebraico” e “democratico” esiste fin dalla nascita dello Stato; basti pensare alla Legge del ritorno che consente agli ebrei del mondo di diventare cittadini di Israele immigrando nel paese. Che Israele sia uno stato “ebraico”, non solo perché luogo di rifugio dalla persecuzioni di un popolo disperso, ma perché l’identità collettiva del paese è impregnata di cultura ebraica (la lingua, le feste, il calendario, i simboli pubblici, dalla bandiera alla menorah) è certamente legittimo. Ma non è accettabile che lo Stato favorisca il gruppo ebraico rispetto ad altre etnie. La novità dell’oggi è che la legge codifica questa discriminazione. In più uno Stato che non ha confini certi e riconosciuti come può definirsi? Se i territori palestinesi fossero annessi, sarebbe Israele ancora lo Stato-Nazione del popolo ebraico? Si giungerebbe così anche formalmente ad uno Stato binazionale, non egualitario, non democratico, con diritti pieni solo per ebrei.