Israele, tra pioggia di missili, proteste e cinque mesi di passione politica

Israele

di Avi Shalom

A 75 anni dalla sua fondazione, Israele si conferma una grande democrazia. Un Paese che nel momento del pericolo sa restare unito malgrado le imponenti manifestazioni del 2023. E con i “miluim”, i riservisti, che hanno risposto alla chiamata, dopo i razzi sparati da Gaza e dal Libano. L’articolo di Bet Magazine di giugno.

 

Di fronte alla pioggia di missili e attacchi da Gaza, malgrado le divisioni politiche e nel momento del pericolo, il Paese resta unito. A 75 anni dalla fondazione, Israele si conferma una grande democrazia. Da gennaio il Paese è lacerato fra due visioni politiche avverse fra di loro. Uscita vincente dalle elezioni del novembre 2022, la coalizione di destra radicale di Benyamin Netanyahu marcia a tempi serrati contemporaneamente su fronti diversi per plasmare la società in una direzione che ne esalti il carattere nazionale, ebraico e religioso, anche al prezzo di un indebolimento delle relazioni con le democrazie occidentali principali. La riforma giudiziaria elaborata dal ministro della giustizia Yariv Levin (che mira a ridurre il potere giudiziario rispetto all’esecutivo e al legislativo, se non addirittura a sottometterlo) ha sollevato una forte resistenza alla Knesset e, più importante ancora, ha indotto masse di dimostranti a scendere nelle piazze.

Le manifestazioni di protesta – a favore della indipendenza del potere giudiziario, prima, e poi anche con rivendicazioni di carattere più generale – si sono susseguite per molte settimane, e si sono estese a macchia d’olio. Sono stati mesi di grande passione politica. Di un dibattito politico ad alto livello fra due visioni di Israele. Complessivamente in questi mesi vi hanno preso parte (finora fortunatamente senza violenze) milioni di israeliani di convinzioni diverse che hanno sentito l’urgenza di uscire dal salotto di casa per andare in strada a scandire le proprie convinzioni ideologiche più profonde.

Le dimensioni sono senza precedenti, ma il fenomeno non è affatto nuovo. Nei primi anni Settanta a Gerusalemme le “Pantere Nere” sfidarono l’establishment laburista per urlare l’urgenza di un intervento sociale a favore delle masse sefardite, allora in condizioni di indigenza economica e di forte subordinazione di fronte alle istituzioni. Nel 1973, dopo la guerra del Kippur, masse di dimostranti – fra cui unità di soldati reduci dal fronte – confluirono a Gerusalemme per esigere le dimissioni della premier Golda Meir e del ministro della difesa Moshe Dayan, ritenuti responsabili di essersi fatti cogliere di sorpresa dagli eserciti di Egitto e Siria. Alcuni mesi dopo, sopraffatta dai rimorsi, Meir diede le dimissioni. Nel 1982, dopo le stragi di palestinesi a Sabra e Shatila, centinaia di migliaia di pacifisti si radunarono a Tel Aviv per protestare contro la guerra in Libano intrapresa da Menachem Begin e da Ariel Sharon assieme con i falangisti di Bashir Jemayel. Alla luce dei risultati di una commissione di inchiesta, Sharon fu sollevato dall’incarico di ministro della difesa. Nel 2005 i coloni si mobilitarono – sventolando bandiere “arancioni di indignazione” – per impedire in extremis il ritiro israeliano da Gaza ordinato dal premier del Likud, Sharon. E nel 2011 masse di israeliani “indignati” presidiarono a lungo il centro di Tel Aviv per protestare contro il caro-prezzi e contro i legami fin troppo intimi fra l’esecutivo, alcuni mezzi di informazione e gruppi economici di potere.

Anche queste manifestazioni – come tutte quelle che le avevano precedute – si rivelarono come momenti di crescita democratica per il Paese. Ebbero inoltre un elevato valore educativo, anche perché ricordavano ai 120 deputati della Knesset che il loro operato era criticamente vagliato dall’elettorato. Fenomeno cresciuto ulteriormente negli ultimi anni, col diffondersi delle reti sociali.

All’inizio del 2023 Netanyahu ha riaperto la questione della natura della democrazia israeliana, teorizzando – alla guida di un governo omogeneo di destra, sostenuto da partiti confessionali – la necessità di un netto ridimensionamento del potere giudiziario. Ciò – ha spiegato – per accrescere la funzionalità del governo, liberandola finalmente da vincoli ed impedimenti di carattere giudiziario che provocano lungaggini. E anche per snellire il lavoro di legislazione dei deputati, mettendoli al riparo dall’annullamento di leggi reputate non costituzionali dalla Corte Suprema.

Ma quello che agli occhi di Netanyahu era un perfezionamento del sistema democratico ha fatto invece inorridire la presidentessa della Corte Suprema Ester Hayut, secondo cui le sue proposte rappresentavano invece una sorta di condanna a morte della democrazia così come gli israeliani l’avevano concepita finora. La composizione della Corte Suprema e la difesa a oltranza delle modalità di nomina di nuovi giudici è diventata una sorta di Bastiglia per la opposizione, in parlamento e nelle strade. Perché in Israele non c’è una Costituzione e perché il premier ha già soverchio potere sull’esecutivo e nella Knesset. Se adesso – come insiste con foga il ministro della giustizia Yariv Levin – anche il giudiziario diventasse in qualche modo succube del governo (non solo a livello della Corte Suprema, ma anche in quelli inferiori) la difesa dei diritti civili sarebbe esposta a gravi rischi.

Mentre da aprile governo e opposizione cercano di trovare un terreno di intesa intessendo un dialogo sotto gli auspici del Capo dello Stato Isaac Herzog, è emerso che la situazione è ancora più allarmante. Perché le parti opposte, pur esprimendosi tutte in ebraico, parlano in effetti lingue diverse. Quelli che per gli uni sono elementi di una solida realtà, per gli altri sono alla stregua di ubbie. Questa situazione paradossale è emersa a fine aprile quando centinaia di migliaia di sostenitori del governo si sono raccolti davanti alla Knesset presentandosi come “la protesta dei cittadini di serie B”. In un gesto di spregio verso il potere giudiziario, hanno calpestato le immagini di Ester Hayut, dell’Avvocato di Stato Gali Baharav Miara, del suo predecessore Avichay Mandelblit e dell’ex presidente della Corte Suprema Aharon Barak, poi indicati nei comizi come persone arroganti, ostili al governo emerso nelle ultime elezioni. Ma come si spiega che a oltre 50 anni dall’avvento al potere di Menachem Begin, e dopo decenni di governi guidati dal Likud, i sostenitori della destra si vedono ancora come “cittadini di serie B”? Perché, è stato spiegato nei comizi, in Israele ci sarebbe sempre un “Deep State”: un potere nascosto di elite proterve “arroccate a difesa dei loro privilegi’’.

Il governo Netanyahu, ha spiegato il ministro Levin in una conversazione privata giunta ai media, è impotente di fronte allo strapotere dei suoi rivali nei mass media. «Siamo in uno stato incredibile di inferiorità. Dalla loro parte – ha spiegato – ci sono la Corte Suprema, l’Avvocatura di Stato, tutti i vertici dell’economia e anche l’amministrazione Usa che lavora con loro spalla a spalla». E chi è il “burattinaio” che nell’ombra agisce contro Netanyahu? Secondo il Likud è l’ex presidente della Corte Suprema Aharon Barak, da 17 anni a riposo. «È lui che a suo tempo fece un colpo di mano giudiziario, che adesso deve essere cancellato». E sotto alla casa di Barak (un sopravvissuto alla Shoah di 87 anni) il Likud ha organizzato manifestazioni di massa. «I giudici Hayut e Barak dovrebbero essere processati per tentato colpo di Stato», ha detto un ministro del Likud, David Amsalem.

Quelle manifestazioni hanno indignato il nipote di Menechem Begin, Avinadav. Ha scritto su Facebook che fu invece suo nonno, essendo un liberale convinto, a volere quella “rivoluzione giudiziaria’’ per garantire la assoluta indipendenza dei giudici di Israele. Fu assistito allora – ha ricordato – non solo da Barak, ma anche da un giudice conservatore, Meir Shamgar, e da un dirigente del Likud, Dan Meridor. La sua concezione liberale di una necessaria superiorità del sistema giudiziario sul politico fu approfondita da Begin in un libro (La concezione di vita e la idea nazionale) che i sostenitori odierni del Likud non tengono più evidentemente nelle loro biblioteche.
In alcuni interventi pubblici, lo stesso Netanyahu sembra aver rimosso un altro fatto storico: ossia che fu il Likud a realizzare il ritiro da Gaza. «Io allora guidavo l’opposizione» ha detto, sollevando stupore.

Al di là della verità storica (che ormai non può più competere con chi si informa solo su testi di poche righe intravisti sul telefonino), resta inoppugnabile il fatto che il Likud si sente ancora un partito vittima di discriminazione di “elites che operano nell’oscurità”. E adesso passa allora “al contrattacco’’ creando elites alternative: elaborando leggi ad hoc e riversando risorse economiche a beneficio della minoranza ortodossa e della collettività degli israeliani che risiedono in Cisgiordania.
Da queste prime misure – che procedono a ritmo serrato al di là dei colloqui sulla riforma giudiziaria – si intravvede la fisionomia futura di Israele

 

In questo contesto due elementi balzano agli occhi. La mobilitazione delle masse nelle strade conferma l’esistenza di una popolazione intelligente ed attiva, determinata a difendere a oltranza il carattere democratico del Paese e i diritti civili. Inoltre, la reazione del Paese di fronte agli attacchi missilistici da Gaza chiarisce che, malgrado le divisioni politiche, nel momento del pericolo la Nazione resta unita.