Jonathan Pollard, la spia che visse due volte (anzi tre)

Israele

di David Zebuloni

Le informazioni passate al Mossad. La cattura dell’FBI, la condanna, i 35 anni nelle carceri americane. E poi la libertà, il ritorno in Israele, la nuova vita, il matrimonio con Esther. I suoi report consentirono a Israele di sventare attacchi e terrorismo. «Non mi pentirò mai di aver messo la vita del mio popolo davanti alla mia». Un’intervista esclusiva sul numero di Bet Magazine di marzo.

Quando, nell’estate del 2014, mi trasferii in Israele, scoprii per le strade delle città dei manifesti appesi ovunque con sopra scritto a caratteri cubitali FREE POLLARD. Poi mi accorsi che molti cittadini giravano con un braccialetto azzurro che riportava le stesse due parole. Free Pollard. Liberate Pollard. Jonathan Pollard, la spia israeliana imprigionata e detenuta in America.

Mai e poi mai mi sarei immaginato, quasi dieci anni dopo, di incontrarlo nella sua accogliente casa a Gerusalemme, finalmente libero. Tuttavia, ancora oggi, trentotto anni dopo il giorno dell’arresto, la sua storia risulta troppo complessa e misteriosa, davvero poco chiara per riportarla interamente. Ciò che si sa con certezza è che Pollard è stato ingaggiato dal Mossad per compiere delle attività di spionaggio negli Stati Uniti.

Secondo alcune pubblicazioni, nei due anni in cui ha operato per conto di Israele, la spia in questione si è infiltrata nel comando speciale per il terrorismo della Marina statunitense, consegnando 1.500 riepiloghi dell’intelligence americana e 800 documenti riservati. Questi documenti hanno reso possibile, tra l’altro, l’Operazione Gamba di Legno: l’attacco al quartier generale dell’OLP in Tunisia nel quale sono stati uccisi 60 terroristi. Pollard ha anche fornito informazioni dettagliate sulla produzione di armi chimiche in Iraq, in seguito alle quali Israele ha deciso di distribuire alla popolazione maschere antigas e siringhe di atropina. La spia, inoltre, ha passato agli israeliani delle tecniche allora innovative e molto avanzate per distruggere i sistemi radar di un altro alleato degli americani: l’Arabia Saudita.

l'ex spia del Mossad Jonathan Pollard ritorna in IsraeleNel 1985, Jonathan Pollard è stato intercettato dall’FBI, catturato e condannato all’ergastolo. Nel 2020, sotto il mandato di Trump negli Stati Uniti e Netanyahu in Israele, è stato liberato definitivamente. La foto del suo arrivo all’aeroporto di Ben Gurion, è presto passata alla storia. Da allora, Jonathan ha rilasciato pochissime interviste, prediligendo il silenzio alla parola. Un altro evento, tuttavia, ha sconvolto la sua vita. Sua moglie Esther, che si è battuta con tenacia per tutta la durata della prigionia a favore della sua liberazione, è mancata di tumore un anno dopo il ritorno in Israele. Oggi Pollard decide di fondare un centro educativo a Tel Aviv in sua memoria e, per sensibilizzare il pubblico italiano alla causa e chiedere il suo sostegno, accetta di incontrarmi e raccontarmi la sua storia, come poche volte aveva fatto prima.

Nonostante il susseguirsi di tragedie, l’ex spia pare una persona pacificata con se stessa. Trascorriamo l’intero pomeriggio insieme, parliamo del suo periodo in carcere con una serenità sorprendente. Ricordando quegli anni, Pollard irrigidisce il mento e serra la mascella, si vede che prova rancore, ma non pare nemmeno troppo turbato. Raccontando le torture subite, inserisce molte battute e sdrammatizza spesso per smorzare l’atmosfera. Solo quando racconta di Esther, della sua Esther, Jonathan scoppia a piangere e la sua lunga barba bianca si bagna in un attimo di lacrime. Prima di congedarmi, Pollard mi ammonisce con un sorriso. «Ormai ti conosco, se scopro che sei a Gerusalemme senza che mi abbia proposto di incontrarci per un caffè, finisce male», afferma scoppiando in una risata. Poi fa l’occhiolino e aggiunge: «Non ti conviene fare arrabbiare una spia, credimi». Gli credo.

Paffutello e un po’ sovrappeso anche quando era più giovane, Pollard non sembra avere nulla della spia, è l’anti James Bond. Ma poi, a rifletterci bene, è in verità l’esatto prototipo della spia ideale: anonima, invisibile, a cui si chiede di passare inosservata e farsi notare il meno possibile. Pollard, la spia che visse due volte, anzi tre. La vita prima dell’arresto, quella passata in prigione e quella odierna in Israele.

Jonathan, qual è il primo ricordo che hai dell’arresto?
Vuoi che ti dica la verità? Ricordo soprattutto il momento in cui arrivai in prigione, vestito già con l’uniforme arancione. Ricordo che camminando verso quella che sarebbe stata la mia cella d’isolamento per molti e molti anni, vidi un gruppo di prigionieri torturare un altro detenuto. Lui gridava come un pazzo mentre loro gli immergevano la testa nel water più e più volte, fino a farlo soffocare. Ecco, ricordo che mi domandai come Dante Alighieri avrebbe descritto quel luogo. Quello era l’inferno.

Com’era fatta la cella?
Si trovava a 150 metri sotto terra. Era una stanza calda e piena di umidità, si faceva difficoltà a respirare. Non vi era nulla al suo interno: un cubo di due metri quadrati privo di stimoli. Non vi era nulla da leggere, nulla con cui scrivere. Non vi era un telefono, una radio. Nulla. Solamente una brandina, un secchio che veniva svuotato due volte alla settimana e una lampadina accesa ventiquattro ore su ventiquattro. Ci davano da mangiare tre volte al giorno. Non ho idea di cosa ci fosse nella scodella, forse cibo per cani.

Ricordi la prima notte in quella cella di isolamento?
Come se fosse ieri. Trascorsi tutta la notte sveglio, a sentire le urla dei detenuti torturati, picchiati, violentati. Capii immediatamente in che luogo mi trovavo, e come mi sarei dovuto comportare. Devi sapere che le carceri americane non sono come le vedi nei film. Non esistono prigioni federali sicure negli Stati Uniti. Lì o si combatte, o si muore.

 

Il tuo status di spia non ti rendeva un privilegiato agli occhi dei carcerieri e dei carcerati?
In qualche modo forse mi aiutò, per un certo periodo. Tutti credevano che fossi una specie di James Bond e, pertanto, mi temevano.

Cosa si scopre in carcere sulla natura più profonda dell’uomo?
Ho scoperto che la repressione sessuale, la mancanza di calore umano e di affetto, la mancanza di luce e di amore, ci rendono persone aride e piene di odio. Ho anche scoperto che quando ci riempiamo di odio, ci svuotiamo completamente di ogni altro sentimento. E alla fine cosa ne rimane di noi? Nulla, solo un involucro privo di anima. Ricordo una linea rossa tracciata sul pavimento. Chi la superava, veniva giustiziato. Un colpo di pistola, niente di più. Molte persone, stanche e prive di speranza, superavano quella linea e aspettavano la loro ora. Volevano farla finita.

Tu non hai mai provato il desiderio di oltrepassarla?
La disperazione è un sentimento che non conosco e non ho mai provato. Non mi appartiene proprio. Mi deludevano le persone che si arrendevano, non le capivo, ma mi deludevano ancora di più i carcerieri, capaci di sparare senza criterio. Quella non era una guerra, non era un combattimento alla pari. Quello era un attimo di potere esercitato da un uomo debole, costretto ad una vita frustrante per duecento dollari al mese.

Un uomo che non conosce disperazione può avere paura?
Certamente. Ci sono stati momenti molto difficili. Una notte mi estrassero dalla cella, mi coprirono la testa con un sacco nero e mi condussero verso ignota destinazione. Viaggiammo per ore. Non potendo andare in bagno, feci i bisogni nei pantaloni. Infine arrivammo in una struttura che non conoscevo. Trascorsi lì sei settimane. Ogni mattina mi portavano nelle docce, mi facevano sedere su una sedia, mi legavano mani e piedi e per mezz’ora mi gettavano dell’acqua ghiacciata addosso. Poi mi picchiavano, mi torturavano e mi violentavano sistematicamente con alcuni arnesi. Terminai quelle sei settimane con le anche, le ginocchia e quattro vertebre rotte, oltre ad un trauma cranico.

Qual era il fine di queste torture?
Volevano che parlassi.

Cosa volevano che tu dicessi?
Ci sono alcune informazioni che non posso condividere con te, ma volevano principalmente sapere chi facesse parte del mio team.

Chiedevano dunque dei nomi?
Sì, ma io non ne diedi nemmeno uno. Non parlai nemmeno una volta.

Perché Jonathan? Non volevi porre fine al tuo supplizio?
In quei momenti chiedevo a Dio una cosa sola: non la libertà, non la salvezza, non la redenzione. Chiedevo a Dio soltanto di aiutarmi a tenere la bocca chiusa. Tutto pur di non diventare un traditore. Siamo sempre stati un popolo di combattenti, non ci siamo mai arresi. Ci siamo battuti contro gli egizi, contro i babilonesi, i greci e persino i romani. Ecco, volevo mostrare a quei carcerieri di appartenere alla vecchia scuola. Di essere un ebreo che combatte, e non un perdente.

Era coraggio? Incoscienza?
No, pura adrenalina.

Mi racconti un momento di speranza in tutto quello sconforto?
Dopo l’arresto, un attimo prima di entrare in prigione, il carceriere mi disse di guardare attentamente il cielo e memorizzarlo, poiché quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei potuto farlo. Mi disse che da quel luogo ne sarebbe uscito solo il mio cadavere, chiuso in un sacchetto di plastica. Io gli risposi che era Dio a governare il mondo, non lui. Sette anni dopo decisero di evacuare la struttura per raderla al suolo e costruirne un’altra. Quando uscii da lì per essere trasferito, incontrai di nuovo lo stesso carceriere. Mi accorsi di essere l’unico detenuto presente all’appello e appresi che tutti gli altri erano morti. Alcuni erano stati uccisi, altri si erano suicidati. Io ero l’unico ad essere sopravvissuto. Feci dunque notare al carceriere che avevo ragione io. Gli dissi che era Dio a governare il mondo e nessun altro. Lui rispose con un pugno che mi ruppe un dente. Mentre ero steso a terra con la bocca insanguinata, pensai che non avevo mai provato un dolore più dolce in vita mia. Avevo vinto io.

 

Sopravvivere alla violenza

Come si può sopravvivere mentalmente alla violenza? Voglio dire, dopo trentacinque anni di torture e isolamento, come hai fatto a non impazzire?
Ho scelto di sopravvivere. La mia è stata una decisione lucida, consapevole e attiva. Non è successo per caso. Volevo vivere e, pertanto, dovevo impegnarmi a sopravvivere. Sì, anche mentalmente. Trascorrevo le giornate progettando cosa avrei fatto dopo la liberazione.
Oggi sto fondando tre diverse Startup e lavoro a otto nuovi progetti. Quasi tutti sono frutto di ciò a cui avevo pensato durante gli anni dell’isolamento.

Credevi davvero che saresti stato liberato? Di tornare in Israele?
Sempre. Avevo scritto nel mio testamento di voler essere sepolto in Israele, quindi sapevo che alla fine ci sarei arrivato. Da vivo o da morto.

Recentemente è stato reso pubblico che, nell’ambito di una negoziazione con i palestinesi mediata dagli americani, vi era la possibilità che un gruppo di terroristi palestinesi venisse liberato dalle carceri israeliane, a condizione che anche tu venissi liberato. Ho letto anche che tu ti sei opposto allo scambio, è vero?
Sì, non avrei mai permesso che dei terroristi con le mani ancora sporche di sangue venissero liberati per me.

Non eri religioso prima di entrare in carcere.
È vero. Per anni non avevo parlato con Dio, ma durante l’isolamento prolungato ristabilimmo il rapporto perduto. Avevamo lunghi dialoghi nei quali io negoziavo con lui. Gli chiedevo di salvarmi e in cambio gli promettevo di diventare un uomo migliore.

In carcere hai anche trovato l’amore.
Vi eravate conosciuti all’università, poi lei, dopo il tuo arresto, ha iniziato a scriverti.
Esther mi ha dato tutto ciò di cui avevo bisogno. La forza, la fede, la speranza e l’amore. Un amore infinito e incondizionato. Lei mi ha salvato la vita. In carcere dormivo con un coltello sotto al cuscino, eppure credimi, quel coltello non è mai riuscito a farmi sentire al sicuro come mi faceva sentire al sicuro il suo amore.

Come credi che sia stato per lei vivere con un uomo dal passato tanto complesso?
Sicuramente complicato, ma lei non me l’ha mai fatto notare o pesare. La prigionia non mi ha reso un uomo violento o pericoloso, sono normale, pacificato con me stesso, ma mi porto addosso i segni di quel passato. Per esempio, anche dopo la liberazione, non ho mai smesso di dormire con il coltello sotto al cuscino.

Com’è stato tornare a casa per la prima volta dopo trent’anni in cella?
Inizialmente abbiamo abitato in un appartamento minuscolo a New York. Era una stanza, più che un appartamento. Non c’era spazio per nulla, ma ricordo che entrandoci per la prima volta rimasi folgorato. I miei occhi non credevano a ciò che vedevano: Esther aveva imbandito il piccolo tavolo per Shabbat. La tovaglia bianca, le candele, le pietanze. Mia moglie aveva pensato a tutto. Era forse un sogno? Da quando è morta ad oggi , sul mio tavolo di Shabbat c’è sempre un posto apparecchiato per lei. Sempre. Sulla sedia, una sua foto incorniciata. Esther non mi hai mai abbandonato e io non abbandonerò mai lei.

Mi racconti gli ultimi istanti trascorsi con lei? Come vi siete separati?
Ero al suo capezzale, mano nella mano. Un attimo prima di andarsene, Esther mi chiese di farle un giuramento. Mi disse che sapeva perfettamente che, dopo la sua morte, molti politici mi avrebbero chiesto di candidarmi alla Knesset per conto dei loro partiti. Mi disse che ci avevano già provato in passato e lei, senza dirmi nulla, l’aveva sempre impedito. Mi ha chiesto di giurarle di non entrare mai in politica, di restare fuori da quel mondo. Mi disse che la politica è l’arte del compromesso, e che io non ero un uomo capace di scendere a compromessi con i miei valori e i miei ideali. Poi mi ha chiesto di farle un altro giuramento: di risposarmi, di non vivere altri trent’anni di solitudine. Ho respirato con lei i suoi ultimi respiri. Ho sempre amato la terra di Israele, ma da quando Esther è stata sepolta, la amo ancora di più, poiché contiene al suo interno il corpo della mia metà.

In cosa consiste il progetto che stai promuovendo in sua memoria?
Esther faceva l’insegnante ed era convinta che l’identità ebraica fosse la sola a poter garantire l’esistenza dello Stato d’Israele. La sua non era propaganda a favore di Israele o dell’ebraismo, ma un richiamo alle origini, alla tradizione, alla conoscenza della nostra storia. Esther diceva sempre che Israele avrebbe vinto qualunque guerra solo se consapevole della propria identità. Una volta perduta quella, lo Stato Ebraico avrebbe perduto anche tutto il resto. Lei sognava di diventare mamma, ma a causa della mia prigionia, non è riuscita a realizzare il suo sogno. Esther credeva moltissimo nei bambini poiché riteneva che fossero i più sensibili, i più plasmabili, i più aperti alla comprensione e alla condivisione. Per questo motivo si rivolgeva sempre a loro. Così ho pensato anch’io di rivolgermi a loro, realizzando il suo sogno, trasmettendo i suoi valori, facendola diventare mamma, fondando un centro per l’educazione ebraica per bambini in suo nome, nel cuore di Tel Aviv. Esther è stata il mio esercito quando ero in prigione, ora vorrei che ci fosse un esercito di bambini a ricordarla.

Quando sei atterrato in Israele, ti sei inginocchiato e hai baciato la terra. È stato un gesto pensato o spontaneo?
È stato un gesto sentito e spontaneo, ma frutto di una riflessione. Non volevo scendere fiero, da eroe, a testa alta, perché non ne avevo motivo. Non sono un eroe. Volevo mostrare la mia gratitudine. Ma nei confronti di chi? Del governo? Di Netanyahu che mi aspettava lì in aeroporto? No, volevo mostrare la mia gratitudine nei confronti del popolo d’Israele e della terra d’Israele. Perciò, inginocchiarmi e baciarla, mi è sembrato il gesto più coerente che potessi fare.

Com’è cambiata Israele dall’ultima volta che l’avevi vista, prima dell’arresto?
Il paese è diventato molto più polarizzato. Ho scoperto che l’Israele che avevo sognato, per la quale mi ero battuto, non esisteva più. O forse non era mai esistita. Forse l’avevo idealizzata.

Sei deluso della vita che ti ha atteso per trent’anni al di là delle sbarre?
Deluso no, ma soffro quando vedo il mio popolo spaccato in due. Prima di morire, Esther mi aveva portato nel quartiere ultraortodosso di Gerusalemme e l’indomani nella spiaggia di Tel Aviv. “Ricordati, sono tutti diversi, ma tutti tuoi fratelli”, mi aveva detto. Questo è un insegnamento che non dimentico. Siamo tutti fratelli.

Ti sei mai pentito di aver sacrificato la tua libertà per Israele?
Ho un solo rimpianto: non essere riuscito a fare di più. Quando in un tribunale americano mi chiesero se mi fossi pentito per ciò che avevo fatto, io risposi che non mi pentirò mai di aver messo la vita del mio popolo davanti alla mia. La mia risposta alla tua domanda, oggi, rimane la stessa. Non me ne pentirò mai.

Per sostenere il progetto in memoria di Esther Pollard, entrare su sito: www.charidy.com/pollard