di Luciano Assin
La maggior parte dei ragazzi israeliani è consapevole che al termine dei 12 anni di studio regolari, a 18 anni, il prossimo passo da compiere è quello del servizio militare obbligatorio della durata di tre anni per gli uomini e di due per le donne. Esiste però la possibilità di rimandare l’arruolamento di un anno, lavorando in una delle varie organizzazioni che si occupano di volontariato civile a favore degli strati meno abbienti e più problematici della società israeliana.
Nel gergo israeliano l’anno in questione viene definito “yud gimel”, il “tredicesimo” visto che viene considerato in aggiunta ai dodici scolastici. Questo ulteriore anno non ha valore ai fini del servizio militare, che rimane comunque della stessa durata, ed avendo un carattere di volontariato non è retribuito, anzi molte volte i partecipanti a questi programmi devono lavorare parzialmente per autofinanziarsi.
Ma cosa spinge questi ragazzi a prolungare di un anno una ferma obbligatoria già così lunga di per sé? E perché questo programma è diventato così popolare, visto che i posti disponibili si esauriscono in breve tenpo?
Fra i motivi principali, penso ci sia la voglia di poter fare -forse per la prima volta- una scelta non obbligata; gli studi e il militare fanno parte delle convenzioni sociali israeliane, il volontariato invece viene vissuto come una scelta autonoma, uno strumento che rende possibile, seppure in minima parte, esprimere la propria personalità e le proprie attitudini. Altri scelgono lo “yud gimel” perché non si sentono ancora pronti al passaggio dalla vita civile a quella militare e hanno bisogno ancora di un po’ di tempo per maturare e rafforzare, tramite quest’esperienza, la propria autostima.
È interessante notare come la stragrande maggioranza dei volontari provengano dagli insediamenti collettivi, kibbuzim o moshavim, o da piccole comunità. Probabilmente il fatto che, sin dalla più tenera età, l’ambiente circostante abitui il singolo allo sforzo collettivo e all’aiuto reciproco è determinante. La risposta alla domanda “perché lo fai?” è di norma sempre la stessa: “per aiutare i più deboli e i più disagiati, per contribuire alla comunità”.
L’incontro fra questi ragazzi, abituati a ricevere il meglio dalla vita, con il lato più oscuro, e per loro sconosciuto, di Israele è molte volte scioccante; di punto in bianco bisogna confrontarsi con una realtà dura e complessa e soprattutto trasformarsi in un educatore, armato di una buona dose di carisma e di molta grinta, doti senza le quali è molto più difficile riuscire.
Fra i progetti riconosciuti come volontariato, i più frequenti sono: movimenti giovanili, collegi, disabili, laboratori artistici e teatrali, difesa dell’ambiente e moltissimi altri. Tutti quelli che conosco, che abbiano partecipato a quest’esperienza sono concordi nel definirla “fondamentale nel proprio percorso di vita”; come in molte altre cose, più sono grandi le responsabilità da affrontare, più è grande la soddisfazione di esserci riuscito.
Un percorso simile ma più mirato è quello del “pre-militare”, una specie di mini accademia nella quale oltre ai “fondamentali militari” vengono aggiunti anche dei valori ideologici che cambiano da movimento a movimento. Questo particolare progetto è molto in voga fra i giovani religiosi. Come si può vedere, anche in una società individualistica ed edonista com’è talvolta quella israeliana, c’è ancora molto spazio per chi ha voglia di offrire qualcosa di suo agli altri. Prendendo a prestito una frase di Kennedy, è proprio il caso di dire: “Non chiederti cosa la società possa fare per te, ma chiedi a te stesso cosa tu puoi fare per la società”.
Luciano Assin