di Aldo Baquis
Non sempre i grandi leoni della politica decidono di uscire di scena con un ultimo ruggito. A volte si ritirano in modo felpato ed enigmatico, come per una decisione covata a lungo, mai strombazzata o minacciata, ma semplicemente maturata nella stanchezza dei giorni e nella fatica, non sempre nobile, della politica.
È stato il caso di Ehud Barak, uno dei grandi protagonisti dell’Israele degli ultimi decenni, personaggio da sempre in prima fila nel processo dei negoziati di pace, nelle guerre del Libano, sul fronte parlamentare, militare e politico.
La cronaca dell’accaduto parte da una mostra d’arte o meglio, dalla giornata di chiusura della mostra sulla Dinastia Brueghel al Museo di Tel Aviv (curata assieme con la Villa Olmo di Como). C’era la folla delle grandi occasioni: fra quanti sgomitavano all’ingresso c’erano non solo amanti dell’arte, ma anche curiosi giunti per vedere da vicino una tela allegorica che, si dice, potrebbe aver avuto un ruolo preminente nelle dimissioni a sorpresa del Ministro della Difesa Barak, militare di carriera mai indisciplinato e poco avvezzo ai colpi di testa. Va detto che per questa raccolta di dipinti e di disegni eseguiti dalle diverse generazioni della famiglia Brueghel, il Museo di Tel Aviv aveva anche passato momenti di ansia: in particolare quando, durante la guerra con Gaza, le sirene di allarme hanno risuonato nel cielo di Tel Aviv, per segnalare che missili sparati da Hamas stavano per arrivare sui tetti della città. Fortunatamente per gli abitanti, questi missili, sparati a più riprese, erano stati intercettati dalle batterie dell’anti-area. Ma ai dirigenti del Museo era venuta la pelle d’oca e si erano sentiti gelare il sangue nelle vene al pensiero di una malaugurata esplosione nelle sale che custodivano quei tesori d’arte inestimabili.
Sirene antiaeree
Fra gli inservienti del Museo era stato subito decretato lo stato di allerta. Squadre di manovali avevano rapidamente staccato dalle pareti -oltre alla Collezione dei Brueghel- anche i Rembrandt, i Canaletto e una delle perle del museo: Il giorno del Kippur, di Mauricy Gottlieb. Tutti finiti stivati, in quattro e quattr’otto, nel ventre della terra, in un vasto spazio blindato. Passato l’allarme, le tele sono state poi riportate nelle sale di origine. Ma al di là di ciò che significhi gestire opere avute in prestito dai grandi musei d’Europa e avere la responsabilità di restituirle intatte anche sotto una pioggia di bombe, la cronaca di quei giorni ha registrato un ultimo ospite eccellente. Fra quanti rischiavano di perdere l’appuntamento con i Maestri fiamminghi vi era infatti il Ministro della Difesa Ehud Barak che dalla finestra del suo ufficio, mentre gestiva il conflitto con Hamas, poteva vedere l’ingresso del Museo di Tel Aviv. Calmatesi le acque e siglata la tregua con Gaza, ha chiesto quindi che gli fosse organizzata una visita privata.
Gli uomini dei servizi segreti si sono presentati domenica mattina, alle sette. Un’ora dopo è giunto il ministro, accompagnato dalla consorte. Appassionato di orologi (che si vanta di sapere smontare e rimontare con sopraffina perizia), Barak ha notato, in un angolo di un quadro allegorico, due minuscoli orologi dorati. Era un quadro di Jan Brueghel il figlio, la Allegoria del Fuoco e dell’Aria, eseguito circa nel 1670.
La vita va goduta
L’atmosfera della composizione è deprimente: mostra spade, scuri, armature, scene di guerra. Non dissimili da quelle che Barak poteva aver visto nei giorni prima, nelle retrovie di Israele o nelle strade di Gaza. Dice il curatore Doron Lurie, che accompagnava Barak: «Gli ho spiegato che con quegli orologi i Brughel ci mandano a dire che i nostri giorni sulla terra sono brevi e contati, e che noi, nella nostra scempiaggine, li sprechiamo in guerre, lotte politiche, giochi di ego. Tutto ciò, ci dicono i Brueghel, è profondamente sbagliato». Barak non ha fatto parola: si è solo allontanato di qualche passo per fare una telefonata. Il giorno dopo, di prima mattina, ha convocato una conferenza stampa nel Ministero della Difesa rivelando, fra lo stupore generale, di aver deciso di dimettersi. La vita va goduta, ha aggiunto, testuali parole: «Ora voglio leggere, scrivere, viaggiare». Ricordiamo che molti uomini politici, in tutte le epoche storiche, spesso hanno scelto l’Aventino o una vita finalmente ritirata, come accadde ad esempio a Michel de Montaigne nella Francia umanista e dopo una vita spesa nel litigioso Parlamento di Bordeaux: anche lui, per citarne solo uno, si ritirò per “leggere, scrivere e pensare”. O ancora, il caso -celeberrimo-, di Lucio Quinzio Cincinnato che stanco e amareggiato dall’agone politico si rifugiò in campagna.
La sinistra sminuzzata
Ma torniamo a Israele e alle elezioni. Mentre avvenivano le dimissioni di Barak si è consumata anche l’implosione della sinistra e dei partiti israeliani di quell’area.
Per far rispondere adeguatamente alla fusione elettorale fra il Likud -di Benyamin Netanyahu-, e ad Israel Beitenu di Avigdor Lieberman (destra radicale), le forze di centro sinistra avrebbero dovuto tentare di coagularsi. Per un po’ è stato vagheggiato un grande fronte guidato possibilmente da Ehud Olmert o addirittura dal capo di stato Shimon Peres, che avrebbe dovuto dimettersi per trascinare con sé (alla veneranda età di 89 anni), l’Israele liberale. Ma poi hanno nettamente prevalso le forze disgregatrici: innanzi tutto con la decisione di Tzipi Livni di lanciare una nuova lista centrista (Tnuà) in alternativa al moribondo Kadima (che lei stessa aveva guidato per quattro anni), e alla lista centrista del giornalista Yair Lapid. Poi il partito laburista è stato indebolito dalla fuoriuscita dell’ex ministro della difesa Amir Peretz, che con passi di minuetto è entrato “in zona Cesarini” nella lista della Livni. Ma anche a destra, malgrado i sondaggi trionfalistici, si sono avvertiti scricchiolii. La reazione di Netanyahu al voto Onu sulla Palestina è apparsa scomposta e molti opinionisti sulla stampa lo hanno accusato di aver aggravato l’isolamento internazionale di Israele: a che pro, gli è stato chiesto, assestare una pedata agli Stati Uniti, dopo che si erano prodigati per sostenere le ragioni israeliane ? Proprio il viceministro degli esteri Dany Ayalon (Israel Beitenu), ha illuminato il senso di distacco fra Israele e la comunità internazionale quando ha perfino sostenuto che quel voto era stato un successo per Israele ed una sconfitta per i palestinesi. In seguito, il leader di Israel Beitenu Avigdor Lieberman è stato costretto a dimettersi, dopo essere stato incriminato per frode. Ciò nonostante, nei sondaggi, la lista congiunta di Netanyahu e Lieberman riceve ancora un terzo dei seggi alla Knesset, e pare lanciata a una netta vittoria. Un tempo al governo, in funzione di freno, c’era almeno Ehud Barak. Dalla fine di gennaio anche lui non ci sarà più: si resterà allora con un Netanyahu pungolato da una lista del Likud ancora più militante che in passato, e con lo stesso Lieberman, che spera di poter trovare entro la fine di gennaio una soluzione delle sue traversie giudiziarie.