di David Zebuloni
Filosofo, studioso, militante politico e rabbino ossessionato dall’Etica, rav Epstein è stato discepolo di Emmanuel Lévinas e suo traduttore in lingua ebraica. Una figura leggendaria, con un seguito trasversale ed eclettico, né di destra né di sinistra. Presenza immancabile nelle manifestazioni di piazza per la liberazione degli ostaggi e contro la Riforma giudiziaria. La sua convinzione: “Dietro a ogni ebreo c’è sempre un essere umano. Etico”. Un’intervista esclusiva a Rav Daniel Epstein
Ogni volta che Rav Daniel Epstein scende in piazza, tutti i manifestanti di fermano un istante a guardarlo. Un uomo anziano, elegante, distinto e, soprattutto, vestito da rabbino. Così non in linea con ciò che avviene per le strade di Tel Aviv. Eppure lui è lì, sempre. Non manca mai. Era lì prima del 7 ottobre, quando migliaia di israeliani manifestavano contro la riforma giudiziaria del governo Netanyahu, ed è lì ancora oggi, a manifestare con le famiglie degli ostaggi contro la leadership del medesimo governo circa la sua gestione della guerra.
Rav Epstein è tutto ciò che non ci aspetteremmo da un rabbino: militante politico e filosofo ossessionato dall’etica, nonché discepolo del leggendario Emmanuel Lévinas e suo traduttore in lingua ebraica. Una guida spirituale che non ha paura di sporcarsi le mani con faccende che non hanno nulla a che vedere con la spiritualità.
Nato in Francia e trasferitosi in Israele, Rav Epstein parla ancora con un inconfondibile accento francese. Pronuncia con voce dolce e mite frasi estremamente dure, specie contro la classe rabbinica di cui fa parte. In un’intervista esclusiva, ora ripercorre le tappe cruciali della sua vita. Quelle che l’hanno condotto ad essere il personaggio controverso e singolare che è oggi. Un uomo che non teme il dibattito, ma che auspica sempre il dialogo. Secondo lui, l’unica vera cura capace di metterci in salvo. In primis, da noi stessi.
Rav Epstein, in quale realtà nasce e cresce un filosofo?
Personalmente, io sono cresciuto in una realtà estremamente ebraica. I miei genitori si sono conosciuti e innamorati in Francia, dove mia madre era fuggita dalla Germania e mio padre dalla Russia. I miei nonni sono stati assassinati ad Auschwitz. Io sono nato nel mezzo di questi due poli: il bene assoluto, quello dei miei genitori, e il male assoluto, quello di chi voleva sterminarli.
Dio l’ha scoperto da solo o l’ha succhiato insieme al primo latte materno?
I valori principali dell’ebraismo mi sono stati trasmessi dai miei genitori. La mia mamma accendeva le candele il venerdì sera. Il mio papà non mangiava il pane di Pesach. Tuttavia, la mia vera formazione ebraica è avvenuta in modo solitario. Ho avuto la fortuna di crescere, fino all’età di undici anni, in un villaggio lontano da ogni comunità ebraica francese. Ciò mi ha insegnato a non dare per scontato il mio ebraismo. Sin da subito ho dovuto esplorare la mia fede da solo.
Una volta compiuti undici anni, mio padre mi mandò a studiare alla scuola ebraica di Strasburgo. Lì, ho veramente scoperto Dio.
Quali erano le sue influenze intellettuali e spirituali?
Primo fra tutti, il mio maestro, Emmanuel Lévinas. Lo conobbi durante gli anni dell’università, attraverso i suoi libri. Lo incontrai invece per la prima volta in Israele, per puro caso. Avevo venticinque anni, mi ero appena sposato e trasferito con mia moglie a Gerusalemme. Camminavo per le vie della città, quando sentii parlare in francese. Mi voltai e lo riconobbi immediatamente. Era Lévinas. Lui si mostrò molto sorpreso di incontrare uno studente di filosofia francese in quel luogo. Lo invitai a cena da noi, a casa nostra. Lui accettò. Mangiammo, bevemmo, parlammo a lungo. Infine lui mi invitò a una sua conferenza. Ero molto emozionato, ovviamente accettai. Erano quattro anni ormai che studiavo filosofia, ero convinto di essere piuttosto ferrato in materia. Quando lo ascoltai parlare in aula, non capii assolutamente nulla di ciò che stava dicendo. L’unica cosa che capii, è che volevo capire. Che volevo continuare a studiare per riuscire a capire a fondo il mio nuovo maestro.
Oggi crede di riuscire a capirlo
davvero?
Oggi tutti credono di capirlo, e si sbagliano. È estremamente difficile capire Lévinas. Pertanto, il mio impegno in questa fase della vita è diventato quello di semplificare il suo pensiero e renderlo accessibile a tutti. Voglio riuscire a tradurlo in modo tale che chiunque possa godere delle sue riflessioni così illuminanti.
Qual è il ricordo più intenso che
ha di lui?
Ricordo che una volta si interessò ai miei studi. Mi chiese di raccontargli tutto ciò che potevo sulle mie letture. Io avevo già deciso di voler diventare rabbino, in quel periodo studiavo in yeshivà e gli elencai tutte le classi di Torah che frequentavo. Lui ascoltò, mi guardò attentamente. Infine sorrise e mi chiese: “Basta così?”. Capii immediatamente cosa mi stesse dicendo. Mi stava domandando che fine avessero fatto i miei studi di filosofia. Quel sorriso di rimprovero mi accompagna ancora oggi. Nonostante il mio ruolo di rabbino, non devo mai dimenticare la filosofia.
Lévinas era a sua volta discepolo diretto di Monsieur Chouchani, una delle figure più affascinanti e misteriose dell’ebraismo moderno. Pochissimi sono gli eletti che hanno potuto incontralo e studiare con lui. Lévinas le ha mai raccontato dei loro incontri?
Devo essere sincero: non mi sono mai interessato a questo personaggio misterioso. Ho molte perplessità circa la figura di Chouchani. Credo e temo che in questo caso la leggenda abbia superato la persona. Lévinas, come gli altri pochi eletti che l’hanno conosciuto, ha sempre parlato delle capacità intellettive di Chouchani, così formidabili e fuori dal comune, ma a me non interessano le capacità intellettive. A me non interessa il talento. A me interessa l’uomo dietro il talento. Oltretutto, i suoi pochi discepoli non hanno mai saputo spiegare quale fosse davvero il pensiero di Chouchani. C’è sempre molta confusione circa i suoi insegnamenti, motivo in più per il quale suscita in me ancora meno interesse.
Come le ha ricordato il suo maestro Lévinas, lei non è solo un rabbino, ma anche un filosofo. Quanto è distante il mondo dell’ebraismo da quello della filosofia?
Dipende di quale ebraismo e di quale filosofia parli. D’altronde, questi sono due mondi estremamente complicati. Dunque, non ogni forma filosofica può abbracciare l’ebraismo e non ogni forma di ebraismo può abbracciare la filosofia. Nel mio caso, che faccio sempre riferimento ad un ebraismo etico e a una filosofia etica, questi due mondi si incontrano eccome. Anzi, si arricchiscono a vicenda.
In effetti, a differenza di Rav Steinsaltz, che ha sempre detto di non poter riassumere l’ebraismo in una sola parola, lei non si è mai posto alcuno scrupolo a definire l’ebrai-smo un richiamo all’etica. Ancor prima di essere halachà o mistica, per lei la fede è semplice etica.
Ciò che ho imparato da Nietzsche è che dietro il filosofo c’è sempre un uomo. Ecco, anche dietro l’ebreo c’è e deve esserci sempre un uomo. Un uomo inteso come un essere umano. Etico. Questi sono i valori umani e umanisti sui quali sono cresciuto, che mi sono stati trasmessi dai miei genitori. Ancora oggi sono convinto che non vi sia niente di più importante di rispettare il prossimo.
È riuscito a confondermi Rav Epstein. Ho sempre pensato che chi vive e agisce secondo l’halachà è per definizione un essere etico. Non è forse così?
Non esiste un essere etico per definizione. L’etica è una scelta quotidiana, non il frutto di un’esistenza vissuta secondo un manuale. Oggi ci sono fior fiori di rabbini che rispettano ogni singola regola imposta dall’halachà, ma che tacciono di fronte al naufragio etico al quale stiamo assistendo. Dove sono questi rabbini? Dove sono questi uomini dell’halachà? Perché non si alzano e protestano? Perché agiscono secondo ciò che dice loro la mente e non secondo ciò che dice loro il cuore?
Il suo non rischia di sembrare un manifesto politico?
Ma certamente. Ogni forma di interesse e di preoccupazione per il prossimo è politica. Se osservando la società nella quale vivo riconosco una forma di malessere o di ingiustizia, come posso stare in silenzio a guardare? Ciò mi renderebbe un irresponsabile. Dunque, non adempierei al mio ruolo di rabbino.
Non crede che un rabbino debba essere super partes? Superiore a ogni questione di matrice politica? Non teme che “sporcandosi le mani” con l’attualità, perda la sua autorità e credibilità di guida spirituale?
Cosa valgono i miei insegnamenti se sono solo teoretici? Nulla. Assolutamente nulla.
In pratica, dunque, lei si definisce un uomo di politica?
Direi di no. Io non agisco per conto di un partito. Il mio, più che essere un coinvolgimento politico, è in realtà un coinvolgimento sociale.
Non teme che un ebraismo militante possa perdere della sua innocenza? Della sua ingenuità? Della sua purezza e nobiltà di spirito?
Certo che lo temo. Lo temo moltissimo, ma temo ancora di più un ebraismo passivo, inerme di fronte a questioni cruciali circa la nostra stessa esistenza.
Viviamo d’altronde in una realtà imperfetta: se non agiamo per paura di sporcarci le mani, verremo meno alla nostra responsabilità di essere umani. Non possiamo astenerci, sottrarci alla realtà solo perché è complessa e potenzialmente immorale. Pensa alla guerra che sta combattendo Israele. Ecco, la guerra è per definizione una scelta sbagliata e immorale, eppure talvolta è necessaria per sopravvivere. Se non ci poniamo queste domande, domande difficili e persino politiche, non potremmo mai trovare il sentiero giusto tra ciò che è ideale e ciò che è reale.
Esiste una risposta a ogni domanda?
L’ebraismo è una religione che pone più domande di quante risposte decida di dare, e va benissimo così. Non bisogna avere paura di porre domande. Di cercare il dibattito. Nell’ebraismo non esiste una figura come il Papa, superiore a tutte le altre. Che determina da solo cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. No, nel Talmud non si fa altro che discutere, dibattere su questioni complesse. Nel Talmud la maggioranza non ha necessariamente ragione. Anzi. La minoranza viene sempre citata e, talvolta, è proprio lei ad aver ragione. Solo tramite il dibattito si può arrivare alla verità. Solo ponendo domande si possono ottenere delle risposte.
Prima ha citato un naufragio etico al quale stiamo assistendo. Quale crede che sia la cura per questo male?
Ancora una volta, il dialogo. Le parole possono cambiare la realtà e salvarci da ogni male.
Rav Epstein, prima del 7 ottobre è sceso in piazza per manifestare contro la riforma giudiziaria del governo. Dopo il 7 ottobre si è unito alle famiglie degli ostaggi per manifestare contro la gestione della guerra da parte del governo. In quanto rabbino, non crede che la preghiera potesse essere forse più efficace?
Esiste un patto tra l’uomo e Dio ed esiste un patto tra l’uomo e l’uomo. Non possiamo fare un passo indietro e aspettare che Dio ci salvi sempre. A volte, tocca a noi il compito di salvare noi stessi. La responsabilità circa il nostro destino non è solo nelle mani di Dio, ma è in primis nelle nostre mani.
In questo ultimo anno e mezzo, in piazza, ha incontrato molte persone che soffrono. Molte mamme che aspettano di riabbracciare i loro figli rapiti e tenuti nei tunnel del terrore di Hamas. Cos’ha detto per dar loro forza e speranza?
Prima ancora di dire qualcosa, bisogna esserci. La sola presenza funge da sostegno. Trasmettere solidarietà, è trasmettere fede. La fede non si trasmette a parole, ma nel palmo di una mano tesa. Di un cuore aperto, pronto all’ascolto. A volte bisogna esserci, e basta.