Riprendiamo da israele.net un interessante articolo che riporta gli appelli di due giornalisti, Eitan Haber e Boaz Bismuth, al presidente americano Donald Trump, in visita in Israele.
“Scrive Eitan Haber: «Benvenuto signor Donald Trump, 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America. No, per accoglierla noi non abbiamo i sontuosi castelli d’oro che ha visitato in Arabia Saudita, non abbiamo spettacolari sfilate di cammelli con cui onorarla. Le nostre banche non apriranno rubinetti di denaro, questo paese non vi inonderà con le sue ricchezze. La sua visita qui non avrà alcun impatto sull’opinione pubblica ebraica americana: chi la sosteneva continuerà a farlo, gli altri continueranno a considerarla un disastro nazionale. Noi non abbiamo niente da offrire, tranne quello che abbiamo qui: il valore dei diritti umani, fondamentali leggi democratiche, un punto d’osservazione libero e occidentale in mezzo al Medio Oriente. Non compreremo missili e navi per miliardi di dollari, e non ci sono migliaia di lavoratori in America che aspettano il suo ritorno con in tasca commesse d’oro da questo piccolo paese del Medio Oriente. Quando si tratta di immagine, di pubbliche relazioni e di grandi acquisti come quelli sauditi, sappiamo che la nostra battaglia è persa in partenza. Ma la cosa importante che deve sapere, mentre il suo aereo presidenziale atterra in Israele, è che in caso di necessità noi sappiamo stare in prima linea. E vincere. Su questo, può contare su di noi. Benvenuto, dunque, in questo pezzo di società libera e aperta, presidente Trump.» (Da: YnetNews, 22.5.17)
Scrive Boaz Bismuth: «Qui in Israele, signor presidente, nessuno brucia bandiere americane. Né adesso né mai. Qui da noi la bandiera americana è quasi altrettanto popolare della bandiera israeliana. Per noi, entrambe simboleggiano la libertà e la speranza. Lei arriva direttamente dall’Arabia Saudita con la forte volontà di vedere Israele e i suoi vicini fare la pace. La ringraziamo per questo desiderio genuino e auguriamo, a lei e noi stessi, pieno successo in questa impresa. Ma deve sapere che l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, qui, è di un altro fallimentare processo di pace. Siamo stanchi della futile diplomazia che porta solo nuovi spargimenti di sangue, spingendoci ad avere uno sguardo sempre più disincantato sulla possibilità di tenere veri negoziati di successo e sulle nostre speranze di pace. Noi vogliamo la pace, signor presidente, non un processo di pace. Dopo più di cento anni di conflitto, ecco cosa abbiamo imparato: che non c’è possibilità di promuovere davvero la pace finché non esiste un chiaro e definitivo riconoscimento arabo-palestinese di Israele come stato ebraico. Altrimenti, purtroppo, la guerra contro di noi continuerà, indipendentemente da quanto ci ritiriamo.
Questa terra non è mai un’entità separata e sovrana per nessun popolo tranne che per il popolo ebraico. Anche Gerusalemme è diventata religiosamente e storicamente importante grazie agli ebrei. Questi sono i presupposti imprescindibili per negoziati fruttuosi. Almeno per una volta vorremmo sentire i palestinesi dichiarare ad alta voce cosa accetterebbero come offerta finale: l’offerta che porrebbe definitivamente fine al conflitto, dopo la quale non avanzeranno più richieste, pretese e rivendicazioni. Signor presidente, lei arriva in Israele in coincidenza con una settimana di festeggiamenti. Cinquant’anni fa i soldati israeliani liberarono Gerusalemme da un’occupazione straniera. Sono passati 1.835 anni da quando i combattenti di Bar-Kokhba entrarono nella città distrutta, nel 132 e.v. Coniavano monete con la scritta “Per la libertà di Gerusalemme” e celebravano re Davide, che l’aveva resa la città eterna. Gerusalemme è Sion, e non esiste sionismo senza Sion. Questo è il posto dove abbiamo desiderato tornare per duemila anni. Ora che siamo tornati, niente potrà mai separarci dal cuore del popolo ebraico.»