di Anna Coen
I racconti che seguono sono dolorosi e difficili da accettare. Sono le testimonianze dei tre ostaggi israeliani liberati da Hamas sabato 8 febbraio, dopo mesi di prigionia. Le immagini dei loro volti segnati, degli sguardi spenti e dei corpi emaciati, segnati da privazioni e maltrattamenti, hanno fatto il giro del mondo, rivelando la durezza delle condizioni in cui sono stati detenuti. Eli Sharabi, Ohad Ben Ami e Or Levy sono tornati a casa, ma il prezzo del loro rilascio è alto: in cambio, Israele ha liberato 183 detenuti palestinesi. Nel frattempo, resta il silenzio su Shiri Bibas e i suoi due bambini, gli ultimi ostaggi civili ancora nelle mani di Hamas, di cui non si conosce la sorte. Mentre emergono dettagli sempre più drammatici sulle sofferenze dei tre uomini, resta il dubbio su quanti altri ostaggi abbiano vissuto lo stesso calvario. Erano solo incolpevoli civili, colti di sorpresa in quel terribile 7 ottobre che rimarrà nella Storia.
Come riporta il canale Telegram Israele senza Filtri citando Itay Blumenthal del Canale 11 della televisione israeliana, “tutti e tre sono stati deliberatamente affamati, per lunghe giornate senza cibo. Ogni due o tre giorni, ricevevano pane pita marcio, che erano costretti a condividere con altri ostaggi che erano con loro. Lunghe giornate intere sono passate senza dargli da bere. Uno degli ostaggi è collassato in prigionia, un evento traumatico che gli ostaggi con lui credevano morto. Hanno subito tutti terribili torture, cose difficili da descrivere, ma importante parlare di quello che succede nei tunnel. Sono stati presi separatamente per un brutale interrogatorio dai terroristi che chiedevano informazioni mentre ne abusavano fisicamente. Stiamo parlando di strangolamento, allacciamento degli arti, blocco della bocca con tessuti – soffocamento, gambe appese e bruciature con oggetti caldi”.
In merito alle condizioni di prigionia, “secondo i testimoni, erano chiusi in una stanzetta all’interno di un tunnel dove non potevano muoversi, figuriamoci stare in piedi, e avevano difficoltà a respirare. Sono rimasti soli per lunghe giornate. Sono stati scalzi per tutto il tempo. “Ci hanno trattati come animali”, ha affermato uno degli ostaggi. Solo quando è diventato chiaro che sarebbero stati liberati i terroristi hanno dato loro un po’ più di cibo per potersi rimettere in piedi una volta rilasciati”.
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Vivo per miracolo
Come riporta Ynetnews, Tal Levy, fratello di Or Levy, ha affermato che «per 16 mesi è stato scalzo, affamato e nella costante paura che ogni giorno potesse essere l’ultimo». Tal ha descritto le dure condizioni e la fame che suo fratello ha dovuto sopportare durante i suoi 491 giorni di prigionia. «C’è stata una fame intenzionale, una politica di Yahya Sinwar», ha dichiarato. E ancora: «È impossibile che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu non lo sapesse, perché ce ne hanno parlato i funzionari dell’Ufficio ostaggi dell’ufficio del Primo Ministro». Tal ha aggiunto che, secondo lui, Or non sarebbe sopravvissuto a lungo se fosse rimasto prigioniero per altre due o tre settimane o un mese.
Or è stato rapito il 7 ottobre dal «rifugio della morte», dove era fuggito con la moglie Einav e molti altri durante l’attacco a sorpresa di Hamas alla festa Nova. La moglie è stata uccisa in quel rifugio, insieme ad altre 15 vittime. Ieri, Or è finalmente tornato a casa e si è riunito al figlio di tre anni Almog, ma ha anche ricevuto la devastante notizia della morte della moglie. «È stato tenuto in un tunnel senza comunicare e ha solo ipotizzato che sua moglie, Einav, fosse stata assassinata. Ha chiesto e gliel’hanno detto», ha spiegato sua madre, Geula. La donna ha anche aggiunto che Or pensava che Almog Sarusi, ucciso insieme ad altri cinque ostaggi in un tunnel, fosse stato liberato. «Era convinto che Almog e Hersh fossero tornati», ha detto. In serata, è stato rivelato che anche Alon Ohel, rapito insieme a Or dal rifugio, è ancora vivo.
Nel frattempo, l’altro fratello di Or, Michael, ha rilasciato una dichiarazione allo Sheba Medical Center, attribuendo anch’egli la colpa ai decisori politici. «Ieri, dopo 491 giorni di inferno, Or è tornato da noi», ha detto. «Era imprigionato nei tunnel di Hamas, tagliato fuori dal mondo, dalla sua vita, dalla sua famiglia. Per 491 giorni, ogni minuto è stata una battaglia: fisica, mentale, emotiva».
Michael ha poi descritto lo stato fisico del fratello: «Dopo un anno e quattro mesi, ho rivisto Or. L’ho abbracciato, ma non era più la stessa persona che aveva lasciato casa il 7 ottobre 2023. Or è tornato in condizioni estremamente deboli. Per 16 mesi è stato scalzo, affamato e nella costante paura che ogni giorno sarebbe stato l’ultimo».
Ha poi aggiunto: «La sua più grande paura è stata confermata quando è stato liberato. Per 491 giorni, ha aspettato di sapere di sua moglie, Einav. Ha scoperto solo ieri che era stata assassinata. Ieri, ha finalmente incontrato il piccolo Almog che gli ha chiesto: “Perché ci hai messo così tanto a tornare?”».
Michael ha sottolineato l’urgenza di continuare la lotta per riportare a casa gli altri ostaggi: «Ogni momento e ogni secondo lì è stato critico. La nostra battaglia non è finita. Il ritorno di Or è un miracolo, ma il popolo di Israele merita questo miracolo. Mio fratello è qui, ma ho ancora altri fratelli e sorelle all’inferno. Vi prego, non dimenticateli. Non smettete di combattere».
In precedenza, Tal Levy aveva parlato a Keshet News della graduale ripresa di Or: «Or si sta riprendendo lentamente. Ieri è stata una giornata dura e confusa per lui, non ha dormito molto. Si è seduto con mia madre e mio fratello e ha condiviso le esperienze della prigionia. Si è addormentato solo alle sette del mattino. Oggi è una giornata migliore, sta iniziando a stabilizzarsi».
Tal ha inoltre rivelato: «Le storie che racconta sono incredibilmente difficili da ascoltare. Non riesco nemmeno a descriverle. Se il pubblico sapesse davvero cosa hanno passato e le scarse possibilità di sopravvivenza che avevano in quelle condizioni… l’Or che ho visto ieri non sarebbe sopravvissuto altre due o tre settimane, o un mese di prigionia».
Ha anche confermato che Or era a conoscenza della politica di carestia intenzionale imposta da Yahya Sinwar, una politica di cui la famiglia era già stata informata. «Non è la prima volta che ne sentiamo parlare», ha detto Tal. «Ieri, ci sono stati briefing dall’ufficio del Primo Ministro in cui si affermava di non essere a conoscenza della carestia intenzionale. Ma posso dire inequivocabilmente che lo sapevano. Il Primo Ministro sapeva. Qualche mese fa, fonti ufficiali del Ministero della Difesa e dell’esercito sono venute da noi e ci hanno parlato di questa politica dall’alto verso il basso, con Sinwar che ordinava di far morire di fame gli ostaggi maschi. È impossibile che le famiglie e noi fossimo a conoscenza di questo e il Primo Ministro no».
La sindrome del sopravvissuto
Tal ha aggiunto che Or aveva inizialmente rifiutato di essere liberato e aveva suggerito che un altro ostaggio venisse rilasciato al suo posto. «Si sentiva molto in colpa per essere stato liberato mentre altri restavano prigionieri. Gli abbiamo detto che era un caso umanitario, soprattutto per Almog, che aveva perso la madre, e che Or era l’unica speranza della famiglia». Or ha anche menzionato Elkana Bochbot, un altro ostaggio con una figlia di quattro anni, dicendo: «Perché non è stato rilasciato lui?».
Oltre al trauma della detenzione, una volta liberati gli ostaggi devono infatti confrontarsi con un terribile senso di colpa per essere sopravvissuti mentre altri sono morti o restano ancora in cattività. Questo fenomeno, noto come sindrome del sopravvissuto, colpisce molte persone che hanno vissuto eventi estremi, tra cui la prigionia. I sopravvissuti spesso si chiedono perché proprio loro siano stati risparmiati e provano un profondo disagio nel tornare alla normalità, sentendosi indegni della seconda possibilità ricevuta. Questo peso emotivo può portare a depressione, ansia e difficoltà a reintegrarsi nella vita quotidiana, richiedendo un supporto psicologico per elaborare il trauma.
Or non sapeva con certezza fino a ieri che sua moglie, Einav, fosse stata uccisa. Tal ha spiegato che, su sua richiesta, uno psicologo gli ha dato la notizia: «Ha pensato che fosse morta perché era nel rifugio quando è successo. Lo sospettava, ma non ne era certo. La prima domanda che ha fatto allo psicologo, dopo essere passato all’IDF, è stata se Einav fosse viva o morta. Lui ha confermato che era morta».
L’incontro emozionante con il piccolo Almog
Tal ha anche descritto l’incontro emozionante tra Or e Almog: «Almog lo ha riconosciuto immediatamente. La paura non era solo nostra, ma anche di Or. Temeva davvero che Almog non lo riconoscesse. L’unica cosa che lo ha tenuto in vita durante la prigionia era il sogno di rivedere suo figlio. Col passare del tempo, ha iniziato a temere che Almog potesse non ricordarlo e che il loro ricongiungimento sarebbe stato freddo e distante. Ma Almog lo ricordava perfettamente. Lo aspettava con ansia. Il loro incontro è stato incredibile, il momento più emozionante della mia vita. Era come se non si fossero mai separati».
Or ha avuto anche la possibilità di mettere a letto Almog per la prima volta: «Era la prima volta che dormiva con suo padre. Durante la prigionia, Or sognava ogni notte di metterlo a letto. Oggi, lo sto aiutando a realizzare quel sogno», ha raccontato Tal. «Ci sdraieremo tutti insieme e leggeremo una storia, e dormiranno abbracciati».
Or, insieme a Eli Sharabi, che ha perso l’intera famiglia nell’attacco, e a Ohad Ben Ami, rapito dal Kibbutz Be’eri in pigiama, è stato liberato dal cuore della Striscia di Gaza. I tre sono stati tenuti sottoterra per la maggior parte della prigionia, senza luce del giorno. Circa una settimana prima del rilascio, gli ostaggi hanno iniziato a ricevere più cibo e acqua, probabilmente per migliorarne le condizioni prima della liberazione.
Appello per Alon Ohel, il giovane ostaggio ancora vivo
Riguardo agli ostaggi ancora detenuti, le condizioni di Alon Ohel tengono con il fiato sospeso la sua famiglia e tutta Israele. Il giovane, un pianista allora ventiduenne con il sogno di studiare jazz a Tel Aviv, è stato rapito dai terroristi di Hamas insieme a Or Levy ed Eliya Cohen, ancora prigionieri a Gaza. Anche Hersh Goldberg-Polin, assassinato durante la prigionia nell’agosto 2024, era stato sequestrato dallo stesso rifugio antiaereo.
In una straziante intervista televisiva di domenica, riportata dal Times of Israel, Idit Ohel, madre di Alon, ha lanciato un disperato appello per il suo rilascio immediato, rivelando che suo figlio è incatenato in un tunnel di Hamas, affamato e con numerose ferite non curate.
Ha implorato la nazione e il mondo di mobilitarsi per il suo rilascio, invitando tutti a scendere in piazza lunedì, in occasione del 24° compleanno di Alon, il secondo trascorso in prigionia.
Idit ha dichiarato a Channel 12 che gli ostaggi liberati Eli Sharabi e Or Levy sono stati tenuti con suo figlio per tutta la durata della prigionia. Il loro ritorno da Gaza sabato ha rappresentato la prima conferma per la famiglia che Alon è ancora vivo, dopo 492 giorni di silenzio dal suo rapimento durante il festival musicale Nova.
«Ha schegge nell’occhio, nella spalla e nel braccio. È stato incatenato per tutto questo tempo e ha vissuto con pochissimo cibo, al massimo una pita al giorno, per oltre un anno» ha raccontato, visibilmente provata. «E non solo lui, ma anche quelli che erano con lui: Levy ed Eli Sharabi», ha aggiunto, sottolineando le condizioni di estrema denutrizione in cui sono stati rilasciati.
Ha poi parlato della forza interiore di Alon: «Viene da una famiglia con radici forti, con nonni e parenti che hanno superato momenti difficili durante la Seconda guerra mondiale. Hanno perso 30 chili, ma sono sopravvissuti e hanno costruito delle famiglie. Alon ha quell’eredità. Sappiamo che è forte».
Eppure, ha insistito: «Abbiamo bisogno del nostro Stato. Abbiamo bisogno che il mondo urli e non permetta che questo orrore continui. Questo è un caso umanitario! Ciò che avete visto ieri, questo è umanitario!».
Nel comunicato del Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi, la famiglia ha espresso il proprio sconforto e l’urgente necessità di azione:
«Oggi siamo stati informati che, dopo il rapimento, Alon è stato tenuto nei tunnel di Gaza insieme agli ostaggi recentemente rilasciati. Se da un lato siamo sollevati nel sapere che è vivo, dall’altro siamo devastati dalle sue condizioni fisiche e mentali. Alon è sopravvissuto all’orrore fino ad ora, ma il tempo sta per scadere! Il rilascio degli ostaggi non può essere rimandato». Ossia, «la seconda fase dell’accordo deve essere anticipata per riportare indietro tutti gli ostaggi. È un dovere morale fare tutto il possibile per salvare Alon e tutti gli altri prigionieri».
Infine, il comunicato annuncia che oggi alle 19:00 (ora locale), in Piazza degli Ostaggi, si terrà una manifestazione per il compleanno di Alon, a cui il pubblico è invitato a partecipare.