di Sofia Tranchina
Mentre i giorni di guerra in Israele già si accavallano l’uno sull’altro – siamo oggi al diciassettesimo –, non sbiadisce l’orrore dei massacri del 7 ottobre. Ancora aperte sono le ferite, ancora devastati i kibbutzim, ancora lungo il lutto delle famiglie. E tra i grafici e le cifre che indicano i feriti, le vittime, gli ostaggi e gli sfollati, emerge l’urgenza di non dimenticare le storie dietro ai numeri.
È per questo che Giulia Temin ci racconta del kibbutz in cui è cresciuto suo marito, dove lei stessa, milanese, ha vissuto per un certo periodo, e dove ha visto suoceri, parenti e amici l’ultima volta poco prima del pogrom.
«Per me è la mia seconda casa, da quando 14 anni fa sono stata lì come volontaria con il movimento Hashomer Hatzair e mi sono innamorata dei paesaggi, della vita agricola, e della comunità».
A inizio ottobre Giulia è andata a passare la festa di sukkot con la famiglia a Holit, un piccolo kibbutz «di appena 53 famiglie» vicino al confine con Egitto e Gaza.
Tornata per lavoro a Yaffo con marito e figlio, è stata svegliata come tutti dalle sirene d’allarme alle sei e mezza del mattino.
Come d’abitudine, la famiglia si è chiusa nel mamad, la “stanza sicura” che molti israeliani hanno in casa. Poco dopo, il cellulare ha iniziato a squillare: erano le notifiche del gruppo whatsapp del kibbutz Holit. Si parlava di un rischio infiltrazione, ma era tutto ancora poco chiaro: molti, per rassicurarsi, si dicevano che sarebbe stato solo un allarme come gli altri, che sarebbe tutto finito dopo poco. Il rumore dell’Iron Dome che intercettava i razzi lanciati da Gaza si mischiava al rumore degli allarmi e degli spari, rendendo difficile capire quale fosse la situazione effettiva. Finché alcuni si sono accorti di sentire parlare arabo, e hanno visto attraverso le finestre persone armate che portavano i simboli di Hamas avvicinandosi alle case.
“Per favore, salvateci. Li sentiamo dentro casa”.
Da lì in poi è un susseguirsi di “hanno lanciato una granata in casa, sono esplose porte e finestre”, “qualcuno ha parlato con i miei vicini? Non rispondono”, “stanno cercando di aprire la porta del mio mamad”, e soprattutto: “dov’è l’esercito? Quando arrivano?”.
«Per tutto il giorno non era chiaro cosa stesse effettivamente succedendo – ci racconta Giulia. – L’esercito non arrivava, le notizie ufficiali non erano ancora uscite, le persone nascoste nei rifugi non capivano cosa succedesse fuori».
Solo dopo si è scoperto che alcuni dei terroristi si erano nascosti tra gli alberi di limone lungo la strada di ingresso, per tendere un’imboscata alle prime truppe di soccorso: «li hanno uccisi tutti». Anche i soldati della base militare di Re’im, che si occupavano del soccorso dei kibbutzim della zona, sono morti tutti. Solo alle 7 di sera sono arrivate le forze speciali.
Ma l’orrore è traboccato all’interno delle case. I mamad, progettati per proteggere dalle schegge dei razzi, sono fatti per poter essere aperti anche da fuori dai soccorsi civili. Molti si sono ritrovati così a ingaggiare una prova di forza con i terroristi per tenere chiusa la porta mentre questi ultimi cercavano di aprirla.
Alcuni erano muniti di chiavistello, ma neppure loro erano al sicuro: i terroristi hanno iniziato a dare fuoco alle case.
«Qualcuno ha avvisato Shir, la sorella di mio marito, che la casa della vicina stava andando a fuoco. Lei è prontamente uscita a piedi nudi con due coltelli e insieme a un altro vicino è riuscita a smontare la finestra del mamad e a trascinare fuori la donna, svenuta e coperta di fumo nero, salvandole la vita. Mentre i terroristi armati giravano per il kibbutz».
Nel frattempo, anche casa sua è andata a fuoco, e tutti insieme si sono chiusi in un altro mamad, dove sono rimasti al buio per dieci ore.
«Dall’altro lato del Kibbutz anche il padre di mio marito, Shimon, è entrato in una casa che stava andando a fuoco, ed è riuscito a salvare una famiglia di quattro persone (coppia con figli). Erano nudi, perché avevano cercato di rallentare il fumo mettendo i vestiti davanti allo spiffero della porta».
Shimon faceva parte del piccolo gruppo della sicurezza insieme all’amico Avi, il cui corpo è stato trovato qualche giorno dopo.
Rendendosi conto di essere sopraffatto numericamente, Shimon è rientrato in casa, e quando un terrorista ha fatto irruzione, si è appostato armato ad aspettarlo, chiedendo invece alla moglie di nascondersi. È così che è riuscito a uccidere l’aggressore.
«Uno dei messaggi più difficili da leggere è stato quando una bambina di 9 anni, dopo che hanno sparato alle gambe dei nonni, ha preso il cellulare dei genitori per scriverci “per favore, venite a salvarci”».
Ma sono ancora tante le tragedie di Holit. Una bambina di 7 anni si è salvata chiudendosi nell’armadio mentre i genitori venivano trucidati. Un ragazzino di 16 anni si è salvato perché i genitori l’hanno protetto coi propri corpi, e il proiettile che l’ha colpito al petto aveva già trapassato il corpo della madre.
«I terroristi sono entrati anche in casa della mia amica Adi, una ragazza dolce e intelligente laureata in ingegneria elettronica. Per proteggere i due figli (di 4 mesi e di 4 anni), è riuscita a prendere l’arma del marito, che si trovava altrove, e a sparare contro uno dei terroristi. Ma per vendetta gli altri l’hanno rinchiusa nel mamad con una granata, e hanno rapito i suoi bambini. Quando ha smesso di rispondere pensavamo avessero rapito anche lei, ma più tardi è stato riconosciuto il suo corpo. È morta».
I figli sono stati portati a Gaza, in braccio a un’altra ragazza rapita. «Li hanno rilasciati appena dopo l’arrivo, facendo un video per mostrare “l’umanità di Hamas” che rilasciava “una madre con figli”, mentendo sul fatto di aver in realtà ucciso la madre». La ragazza è tornata a piedi da Gaza nel mezzo della notte con i bambini in braccio.
«Il kibbutz ora è zona militare. Le case sono bruciate, le macchine distrutte, gli averi sono stati rubati. Chi è sopravvissuto è stato portato dall’esercito al kibbutz di Ein Gedi, dove si trovano tuttora». Per arrivarci, hanno dovuto passare per la strada 232, che percorre il confine con Gaza attraversando diversi kibbutzim: «lungo il percorso hanno visto atrocità anche peggiori di quelle subite. Hanno coperto i volti dei bambini con delle magliette per impedir loro di vedere che con le macchine stavano passando sopra cumuli di corpi».
Ma nonostante tutto, la comunità vuole tornare a Holit e ricostruire tutto. «È casa. Non c’è un altro posto in cui andare. È vero che è una periferia, ma anche un luogo di persone idealiste che hanno scelto di vivere in queste comunità desertiche, agricole, e ce l’hanno messa tutta per costruirsi una vita».
C’è una rete di aiuti civili, musicisti che vanno a suonare per mantenere alto il morale, optometristi che rifanno gratis gli occhiali a chi li ha persi nel kibbutz… ma c’è bisogno di molto altro per ricostruire le case e tornare a vivere. Ed è per questo che la comunità di Holit ha bisogno di donazioni, che vengono raccolte a questo link.
«La nostra bella e amata casa è stata colpita da un’ondata di terrore crudele e inconcepibile.
Nonostante l’eroismo e il coraggio dimostrati dai membri del kibbutz, 15 dei nostri sono caduti, lasciando orfani, sposi, compagni e amici. Faremo tutto il possibile per donar loro un nuovo inizio. Sogniamo di poter ricostruire i nostri campi e i nostri frutteti, e tutto ciò che ci è stato tolto. I contributi aiuteranno orfani e feriti, la ricostruzione delle case e del patrimonio agricolo, e il movimento di rinascita».