Lultimo numero dellautorevole settimanale The Economist riserva unamara sorpresa al lettore. La copertina, infatti, è dedicata a una commemorazione, quella che ricorre in questo inizio di giugno, dei 40 anni dalla travolgente vittoria israeliana nella Guerra dei Sei giorni. Una data per la verità cara a tutti coloro che vollero allora e vogliono continuare oggi a opporsi alle sopraffazioni.
Non dimentichiamo mai, infatti, che quella fu una vittoria per la sopravvivenza. La vittoria di un Paese coraggioso e microscopico, lunica democrazia del Medio Oriente, che si oppose con le sue sole forze a unondata incontenibile di odio e di sopraffazione.
Il titolo dellEconomist è eloquente: La vittoria sprecata di Israele.
I servizi e i commenti, lungi dallessere imparziali, non cadono però nelle rozze prevenzioni di tanta stampa nazionale e internazionale. Toccano anzi note dolenti per Israele e per tutti coloro che Israele hanno nel cuore.
A 40 anni dalla Guerra dei Sei giorni, una vera pace nella regione sembra più che mai lontana. Certo, molti progressi sono stati compiuti e Israele oggi intrattiene regolari relazioni diplomatiche con Paesi che allora cercarono senza successo di buttare gli ebrei a mare. Ma la questione palestinese si è fatta sempre più avvelenata e ingovernabile. Una sciagura che a prescindere dalle responsabilità in campo minaccia il futuro di tutta la regione.
Non cè bisogno di cedere alla sgradevole faziosità di quanti hanno voluto sostenere che Israele rasenta lingovernabilità e che il premier Ehud Olmert, severamente censurato da una Commissione dindagine per la scoordinata reazione agli attacchi provenienti dal Libano, dovrebbe abbandonare il campo prima ancora che un vero ricambio si sia fatto avanti. Il settimanale LEspresso, sempre in questo ultimo numero, specula per esempio congetturando di un Israele nel vicolo cieco.
Dobbiamo reagire a queste fandonie. E soprattutto evitare di lasciarci suggestionare da quanti vorrebbero far passare il messaggio che Israele non abbia futuro.
La realtà è ben diversa. Anche in questi ultimi 40 anni, e nonostante tutti gli errori che sono stati commessi, Israele è lunica realtà in crescita della regione e continua a impartire lezioni di moralità e di rettitudine non solo, ovviamente, ai biechi, disumani regimi del circondario, ma anche ai più avanzati sistemi occidentali.
Sta di fatto, però, che in questi 40 anni, come sottolinea lEconomist, non tutto è andato per il verso giusto. Molti errori sono stati commessi. E a poco serve dire che in alcuni casi, purtroppo, sarebbe stato difficile fare altrimenti.
Prendiamo ad esempio proprio il conflitto sul confine settentrionale della scorsa estate. Chi oggi vorrebbe addossare a Olmert ogni responsabilità di quanto accaduto e del parziale insuccesso delloperazione, dimentica di dirci che in effetti questo anno scarso che ci separa dai tragici combattimenti della scorsa estate si è rivelato il periodo più tranquillo nella zona da molto tempo a questa parte.
Certo, Israele bene ha fatto a difendere con forza la sua popolazione. Ma non possiamo accontentarci di questa affermazione.
Se veramente vogliamo difendere Israele dobbiamo guardare avanti, prepararci a gestire soluzioni coraggiose e ad affrontare rinunce dolorose.
Dobbiamo armarci di idee nuove e di nuovo coraggio. Riconoscere che il sistema ideologico del sionismo non basta più per rispondere a tutti gli interrogativi contemporanei.
Ma soprattutto, dobbiamo smetterla di gratificarci dellamicizia (il più delle volte sincera) che molti ci rivolgono. Gli amici sono importanti. Eppure noi dobbiamo concentrarci nel conquistare i nostri nemici. Nel far comprendere a tutti che le ragioni di Israele costituiscono il certificato di garanzia di tutte le società progredite e non solo di quella che sta a cuore agli ebrei di tutto il mondo.
Che lesperienza di Israele, con i suoi successi e anche i suoi immancabili errori, costituisce un patrimonio insostituibile. Per noi e per tutte le persone di buona volontà.
Amos Vitale (amosvitale@mosaico-cem.it)