Soldatesse, sotto il sole di Gaza

Israele

di Aldo Baquis

Kissufim, al confine tra Israele e Gaza. Ai bordi di una pista polverosa, a breve distanza in linea d’aria dalla città palestinese di Khan Yunes (Gaza), la ventenne ufficialessa israeliana Kay impartisce un ordine stringato nell’apparecchio radio. Pochi attimi dopo, dietro agli eleganti occhiali da sole, si delinea uno sguardo compiaciuto: perché al suo fianco si è adesso materializzato un veicolo blindato su quattro ruote, simile ad una jeep Tomcar, carico di antenne, microfoni, computer, macchine fotografiche, telecamere. «È il mio Karbam», spiega con affetto, come parlasse del fido cagnolino. Aperta la portiera, mistero: il posto di guida è vuoto. In gergo militare, Karbam significa infatti “Veicolo senza equipaggio”. L’automezzo è stato spedito a Kay (il suo nome evoca fiori tropicali) da due soldatesse che si trovano in una base vicina: una guida, l’altra manovra le apparecchiature elettroniche. Non ha mai sete, non è mai stanco, non si lamenta dei turni massacranti, non chiede licenze e se occorre resta in agguato per giorni: Karbam viene impiegato per perlustrare la zona di demarcazione fra Kissufim e la striscia di Gaza, per segnalare sabotaggi o infiltrazioni. È prezioso nei banchi di nebbia, o nelle pieghe del terreno che le vedette da terra non possono scrutare. In tutto il mondo, a quanto pare, solo la ufficialessa Kay, di Kissufim dispone di Karbam. La aiuta uno staff composto solo da soldatesse. «A volte soldati maschi ci implorano di ‘fare ungiretto’ con lui, ma noi non cediamo mai il volante: questa è roba seria!». Ai commilitoni maschi, Kay consente solo, magnanima, di portarlo a fare il pieno o di aggiustare eventuali guasti meccanici.

Come Kay un’altra ufficialessa, Nofit, è impegnata a scrutare sistematicamente la striscia di Gaza per scoprire per tempo possibili attività offensive. Dispone di un pallone aerostatico che si solleva fino a 400 metri, per osservare con le sue telecamere – dal valico di Erez, fra Israele e Gaza – alcuni chilometri più a sud le case, i cortili, le viuzze del campo profughi palestinese di Jabalya. Prima di arruolarsi, Nofit ha trascorso un anno di volontariato come educatrice fra giovani disadattati. Polso non le manca: ora comanda in una “postazione-pallone” di una ventina di soldati: metà femmine, metà maschi. Per imporsi, ricorre a quantità addizionali di professionalità.

Il terminal di Erez è un edificio moderno e accogliente: quasi surreale, in una zona semidesertica. In questo inizio di primavera, la natura è in fiore: ma a novembre qua piovevano razzi palestinesi, esplodevano colpi di mortaio. «Di continuo avevamo l’allarme rosso. Ad attraversare un tratto scoperto di 100 metri si rischiava la vita», ricorda la ufficialessa Yael, coordinatrice del transito di diplomatici e di esponenti di organizzazioni internazionali. In tempi normali, 400 palestinesi entrano ogni giorno in Israele da questo valico, per lo più per ragioni umanitarie. Ma Yael non si è tirata indietro nemmeno quando Erez era sinonimo di inferno. Da Gaza era stata informata che tre neonati, in incubatrici, dovevano assolutamente passare in Israele. Respingendo soldati offertisi volontari, Yael ha coordinato di persona il trasbordo dei piccoli dall’ambulanza palestinese a quella israeliana, mentre attorno si sentivano echi di esplosioni. «Come avrei potuto agire altrimenti? Mio padre è direttore di un reparto di ostetricia…». Cresciuta in una famiglia religiosa, Yael avrebbe potuto garantirsi una vita meno avventurosa se avesse ascoltato (come buona parte delle compagne) i rabbini tradizionalisti, più favorevoli ad un servizio civile per le ragazze religiose piuttosto che a quello militare. «Ma io – ha obiettato loro -potrò essere utile alla società anche dopo il congedo, una volta laureata e con figli». Progetti per il futuro? «Studi di biotecnologia, o magari un corso per diplomatici nel ministero degli esteri».