di Bruno Rossetto
“Qual è il giusto numero di terroristi per una vita? Qual è il giusto numero di assassini con le mani ancora sporche di sangue che metta al centro della bilancia l’ago tra responsabilità verso la famiglia Shalit e verso le famiglie delle vittime degli attacchi terroristi? La ricerca del giusto mezzo, dell’ideale aristotelico di giustizia, ci ha lasciato e ci dona solamente un salomonico imbarazzo, in fondo un’inettitudine intellettuale. Per 5 anni, in Israele abbiamo perso il significato di questo giusto mezzo, da una parte la responsabilità morale per Gilad Shalit e dall’altra la responsabilità per la sicurezza del nostro Paese”. Così si interroga su Ha’aretz Donniel Hartmann, politologo e opinion maker dello Shalom Hartmann Institute, il giorno della liberazione di Gilad Shalit, il 18 ottobre scorso. Gli stessi dubbi, le stesse angosce che -pur nel momento della gioia per la libertà di un ragazzo, militare di leva rapito in territorio israeliano quando aveva appena 19 anni-, scorrono sotto la pelle di molti israeliani.
Tom Segev, uno degli storici più ascoltati in Israele, non si sottrae ad una domanda diretta sull’accordo di scambio mille a uno, mille prigionieri tra cui figure nerissime di assassini spietati, terroristi di braccio e di mente, pericolosi per il futuro della sicurezza nello Stato ebraico: “È una brutta storia. È una di quelle decisioni che nell’immediato peggiorano la situazione sul campo. Da domani, non vorrei essere nei panni di Netanyahu: con quella gente in giro, alcuni davvero terroristi orrendi, è a rischio la sicurezza di tutti . E poi vorrei sapere che controllo abbiamo di Gaza, se in cinque anni i nostri 007 non hanno mai scoperto dove stesse Shalit”. Ma alla fine, è favorevole allo scambio.“Certo che sono favorevole! Il mio cuore è felice, a vedere Shalit a casa. Ed è interessante come questa storia abbia cambiato la nostra società: tutti considerano Gilad il figlio di tutti (salvate il soldato Shalit). Lo stesso vale per i palestinesi, con alcuni dei loro detenuti. Se fossero morti, nessuno se ne occuperebbe più. Invece, in società sempre meno solidali, il caso Shalit è stato un modo per pensare ai guai di un altro, vicino o lontano che sia. Chissà che non nasca qualcosa d’altro. Cioè, -questa è la parte positiva della vicenda-, la grande novità storica è che Hamas e Israele hanno fatto un accordo. E il giorno dopo non è crollato il mondo. Hanno fatto un patto con il diavolo, e il sole è sorto lo stesso. Le due parti hanno visto che ragionare intorno ad un tavolo è possibile. Questo piccolo passo può portare un po’ di razionalità e a qualcosa di diverso nel futuro. Non succederà domani. Ma dopodomani, chissà…”. Un mese fa, Segev aveva intuito proprio nella precaria situazione del Nordafrica, in particolare dell’Egitto, la necessità di stringere i tempi di un accordo. Adesso o forse mai più, aveva detto. Perché se al Cairo avesse preso il potere la Fratellanza Musulmana, forse i rapporti con Israele avrebbero subito uno stallo irrimediabile: “È stata forse l’ultima chance: oggi la giunta militare vuole recuperare il rapporto con Netanyahu, ma siamo sicuri che tra qualche mese, al Cairo, ci sarebbero stati ancora interlocutori disponibili a fare da mediatori con Hamas?”.
Dunque la gioia per una liberazione che arriva forse nell’unico momento possibile. C’è il sorriso di Gilad, le lacrime di gioia dei suoi genitori e dei suoi amici. Di tanti israeliani e di tanti ebrei nel mondo.
Ma in Israele c’è anche chi ha parlato di un giorno di lutto, ci sono le famiglie delle vittime dei terroristi liberati, che hanno presentato ricorso contro l’accordo alla Corte Suprema di Gerusalemme e hanno visto respingere le loro ragioni. Noam Shalit, il padre di Gilad, ha incontrato queste famiglie e ha detto loro che “una mancata applicazione dell’accordo sarebbe la condanna a morte per mio figlio, e non riporterebbe in vita i vostri cari”. Ma chi pagherà per la vita degli israeliani uccisi, feriti e mutilati dai palestinesi che oggi camminano liberi? Israele, i suoi cittadini, i suoi militari, sono forse oggi più a rischio dato che Hamas sa quanto vale un israeliano rapito? Sì, certo. Il presidente Shimon Peres ha ricevuto una delegazione di familiari delle vittime del terrorismo venuti ad esprimere dolore e angoscia per la scarcerazione di centinaia di terroristi; il primo ministro Benjamin Netanyahu ha inviato una lettera alle famiglie che hanno perso i loro cari in attentati terroristici, per spiegare la sua decisione di scarcerare 1.027 terroristi in cambio della liberazione dell’ostaggio Gilad Shalit. “Ho perduto un fratello, ucciso dai terroristi – scrive Netanyahu- e capisco il vostro dolore. Per tutto il tempo delle trattative siete stati costantemente presenti nei miei pensieri. La mia decisione di portare a casa Gilad rispecchia l’impegno del primo ministro d’Israele a riportare a casa un soldato che lo Stato ha inviato ai confini per difendere i propri cittadini”.
Parole che non possono consolare Ze’ev Rapp. “Mia figlia è stata uccisa a Bat Yam da Fuad Amrin”, racconta “E ho saputo solo dalla tv che l’uomo che ha aperto il petto di mia figlia di 16 anni con un coltello e le ha tolto il cuore sarà liberato. Due primi ministri israeliani, Ariel Sharon e Ehud Olmert, mi hanno fatto una promessa scritta su un foglio: non rilasceremo mai l’assassino di tua figlia”. Una storia tra le tante.
Certo i volti, i nomi, le azioni dei terroristi liberati suscitano rabbia e dolore. Abdel al Hadi Ganaim, che nel 1989 gettò un autobus israeliano da un dirupo, uccidendo sedici persone. Walid Anajas, 12 uccisi al Moment cafè di Gerusalemme. Abdul al Aziz Salaha che fece a pezzi con le sue mani due riservisti israeliani a Ramallah. Nasser Yataima, autore dell’eccidio di trenta sopravvissuti alla Shoah, al Park Holtel di Netanya. Mussab Hashlemon, condannato a sedici ergastoli per aver spedito kamikaze a Beersheba. Fadi Muhammad al Jabaa che ha diretto la strage su di un autobus a Haifa. C’è anche Husam Badran, che ha ucciso venti ragazzini ebrei russi al Dolphinarium di Tel Aviv e quattordici persone al ristorante Matza. Poi ci sono i fondatori dell’ala militare di Hamas (Zaher Jabarin e Yihya Salawar), i cecchini che hanno sparato ad automobili e i “pugnalatori” che hanno ucciso a mani nude. E ancora ventisette donne, forse le più colte, intelligenti ed efferate assassine, che per uccidere hanno usato le armi della seduzione, dell’inganno. Tra loro Ahlam Tamimi, che ha trasportato la bomba e il kamikaze che alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme ha ucciso quindici persone. Usava le proprie credenziali giornalistiche per superare i controlli: “Non mi pento per i bambini uccisi”, ha detto. È libera anche Mona Awana, anche lei giornalista, che tramite Internet ha attirato il sedicenne israeliano Ofir Rahum per quello che doveva essere un appuntamento galante. Il ragazzo fu torturato, ucciso e legato al cofano di un auto.
Un’altra terrorista liberata è Wafa al Biss, che voleva diventare martire fin da piccola: “Credo nella morte, volevo uccidere cinquanta ebrei perché una donna musulmana, da martire, diventa regina delle 72 vergini”. “Da una parte la santificazione del culto della morte e dall’altro un atto che salva una vita”, scrive il Jerusalem Post. Gilad Shalit ha passato 1941 giorni in prigionia, senza avere contatti con la famiglia, né visite di osservatori neutrali. “Per l’esercito israeliano è tempo di introspezione. Israele sta mandando un messaggio a tutti i suoi soldati, come nazione, come società civile il cui vero perno è la solidarietà: non si lascia nessuno (soldato, operaio, impiegato) indietro”. E tutti in Israele ripetono, come ha scritto Shimon Peres su ogni singolo documento che stabilisce la grazia presidenziale per i detenuti palestinesi, “non dimentico e non perdono”.