di Avi Shalom
Le rivendicazioni dello Stato Islamico, i festeggiamenti di Hamas e Jihad a Gaza, la sorpresa (inquietante) dello Shin Bet. Il Governo va in crisi e Netanyahu incalza
L’ululato delle sirene delle ambulanze. Le scene concitate nelle strade. L’afflusso di volanti della polizia. Gli aggiornamenti frenetici alla radio. I programmi straordinari alla televisione. E le immagini delle vittime che circolano nelle reti sociali, prima ancora che sia stato possibile avvertire i congiunti. Poi i funerali degli uccisi, già poche ore dopo gli attentati, accompagnati da familiari ancora sbalorditi, affranti ed in stato di choc.
Questo tragico rituale è tornato, di totale sorpresa, in Israele nella seconda metà di marzo e ad aprile. Sorpreso anche lo Shin Bet, il sofisticato servizio di sicurezza, che non l’aveva fiutato nell’aria. E stupiti anche i vertici di governo che negli stessi giorni erano impegnati a cercare di plasmare un futuro Medio Oriente di cooperazione e di prosperità nell’ambizioso Vertice del Negev, a quattro passi dalla tomba di David Ben Gurion di Sde Boker, alla presenza dei ministri degli esteri degli Accordi di Abramo: Israele, Usa, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e con l’aggiunta dell’Egitto. Nelle stesse ore in una città di Israele, Hadera, passanti si sono trovati esposti alla violenza terroristica e hanno lottato per tornare indenni a casa.
Fra le “vittime” dell’ondata terroristica anche il governo “multi-colore” di Naftali Bennett, otto liste di destra, di centro e di sinistra da mesi sottoposte ad una delegittimazione sistematica e dai toni intimidatori da parte dell’ex premier Benyamin Netanyahu. «A causa della debolezza del governo Bennett, il terrorismo ha rialzato la testa – ha affermato Netanyahu. – In questa Regione occorre sempre essere forti. Con i forti, il terrorismo non ci prova. Dunque il governo Bennett deve andare a casa. Saremo noi a costituire un governo forte, che saprà lottare contro il terrorismo e bloccare le aspirazioni nucleari dell’Iran». Mentre la situazione di sicurezza degradava rapidamente, Netanyahu ha accelerato i tentativi di sfaldare la coalizione di governo ed è riuscito a convincere la presidentessa della coalizione a ritirare il sostegno a Bennett, privandolo così della maggioranza.
Beer Sheva, Hadera, Bnei Braq
La prima avvisaglia di un nuovo clima politico si è avuta in un centro commerciale di Beer Sheva quando un beduino della zona ha travolto un passante con la sua automobile e ha poi dato una caccia spietata ai passanti armato di un coltello dalla lunga lama. Sono stati dieci minuti di terrore, fino a quando un ardito autista di autobus lo ha affrontato con una pistola in mano e lo ha neutralizzato. Lo Shin Bet avrebbe poi appreso che l’attentatore era stato un simpatizzante dello Stato islamico, che aveva anche cercato di raggiungere il Califfato e che era stato bloccato in Turchia. Aveva poi scontato in Israele una pena detentiva.
Giusto il tempo di riprendersi dalla sorpresa e, due giorni dopo, dalla città di Hadera sono giunte le immagini di due attentatori barbuti, dalle lunghe chiome, in chiaro stile Isis, che sparavano lunghe raffiche di arma automatica in una strada del centro. Il corpetto di uno di loro mostrava un grande teschio: un simbolo preso in prestito da una fiction statunitense, The Punisher. I due killer sarebbero stati freddati quasi subito da militari israeliani in borghese che si trovavano per puro caso nelle immediate vicinanze. E anche questi attentatori, arabi israeliani residenti nella vicina città di Um el-Fahem, sono risultati accesi seguaci dell’Isis. Possibile che si stesse assistendo al risveglio di cellule dormienti?
Passano ancora pochi giorni e la morte torna a bussare, questa volta nella località ortodossa di Bnei Braq, alle porte di Tel Aviv. Un attentatore solitario si avventa sui passanti, spara da distanza ravvicinata, percorre un lungo itinerario di morte nelle strade del quartiere e viene abbattuto da una coppia di eroici agenti, uno dei quali rimane ucciso. Si tratta di un arabo cristiano della Galilea. La sua bara sarà poi avvolta nella bandiera nazionale israeliana, con una croce di fiori bianchi delicatamente deposta sopra, nella Basilica della Annuciazione, a Nazareth. L’attentatore di Bnei Braq veniva da Jenin, Cisgiordania. E militava nella Jihad islamica. E pochi giorni dopo il terrorismo palestinese torna in scena nella centrale via Dizengoff di Tel Aviv. Un palestinese giunto dalla Cisgiordania penetra armato in un pub, spara a bruciapelo sui presenti: con dodici proiettili uccide tre di loro e ne ferisce gravemente altri quattro. Poi fugge nella Dizengoff, spara ancora e sarà eliminato solo dopo nove ore, presso una moschea di Jaffa. Come promesso, un Ramadan di fuoco. Quattro attentati, 14 morti. La paura è dunque tornata all’improvviso nelle strade di Israele. Ancora una volta madri in stato di trepidazione si sono chieste se non fosse troppo rischioso mandare i figli a scuola, se fosse ancora consigliabile avventurarsi nelle vie del proprio quartiere.
Alla ricerca di una regia
In Israele molti pensavano che lo Stato islamico appartenesse ormai al passato, con la sconfitta sul terreno del Califfato e con la uccisione del suo leader. Invece, dopo l’attentato di Hadera, una agenzia di stampa legata all’Isis ha rivendicato la paternità dell’attacco e ne ha minacciati di nuovi.
Lo Shin Bet si è trovato di fronte a un rompicapo. L’attacco di Beer Sheva aveva due matrici: una, più vaga, legata allo Stato islamico e l’altra, più preoccupante, collegata alla crescente tensione fra le istituzioni di Israele e la minoranza beduina nel Negev, dove la malavita prospera e le armi abbondano.
L’attacco di Hadera poteva essere forse apparentato allo Stato islamico, anche se nella sua rivendicazione non sono apparsi elementi che non fossero già stati pubblicati prima dai media. Negli attacchi di Bnei Braq e di Tel Aviv c’erano molti elementi di una ripresa della intifada armata in corso da settimane nella Cisgiordania e a Gerusalemme est. La questione era dunque se si potesse parlare di una vera e propria ondata di terrorismo, o se si avesse a che fare con episodi indipendenti uno dall’altro. A metà di aprile è maturata la convinzione che la prima ipotesi fosse la più calzante.
Da Gaza intanto Hamas e Jihad islamica hanno applaudito a gran voce gli attentati che hanno sconvolto Israele. Perfino quelli “targati” Stato Islamico (Daesh): una entità che a suo tempo fu neutralizzata con mezzi bruschi dallo stesso Hamas, a Gaza. «Siano benedette le loro mani», dice adesso Hamas.
Nel frattempo lo Shin Bet, l’esercito e la polizia israeliana si sono impegnati al massimo per stroncare la catena di violenze. «Abbiamo sventato almeno 15 attentati, abbiamo arrestato oltre 200 persone pericolose, abbiamo interrogato 400 sostenitori dell’Isis», ha aggiornato Bennett. Importanti rinforzi sono stati dislocati nelle città di Israele. Tremila agenti nella sola Gerusalemme per affrontare le possibili tensioni durante il Ramadan islamico e le contemporanee Pasque di ebrei e cristiani. Altri rinforzi sono stati inviati lungo la Barriera di sicurezza fra Israele e Cisgiordania.
La strategia di Hamas
C’erano anni in cui la minaccia principale di Hamas era quella del terrorismo “classico”: la bomba nell’autobus, il kamikaze col giubbotto esplosivo, l’attacco all’arma bianca. Da allora le Brigate Ezzeddin al-Qassam (ala militare di Hamas) hanno seguito le orme degli Hezbollah e si sono trasformate in un esercito che non va sottovalutato. Sono 20-30 mila uomini armati, addestrati, dotati di armi avanzate fornite in parte dall’Iran. Nei loro bunker sotterranei hanno migliaia di razzi con testate fino a 200-250 chilogrammi e con una gittata che copre gran parte del territorio israeliano. A seconda delle necessità, Hamas può colpire Haifa, Gerusalemme, Dimona e anche Eilat. I suoi commando possono cercare di attaccare le piattaforme di gas naturale israeliano nel Mediterraneo. I suoi droni possono essere inviati in missione spia, o anche suicida. Al fianco di Hamas, anche la Jihad islamica ha capacità simili, anche se quantitativamente più ridotte.
Al momento Hamas è impegnato nella ricostruzione di Gaza, dopo il round di combattimenti con Israele del maggio scorso. Per calmare le acque si sono impegnati l’Egitto e il Qatar che versa a Hamas decine di milioni di dollari al mese. Anche Israele, per mantenere la calma sul confine, concede adesso l’ingresso di migliaia di manovali di Gaza.
Ma Hamas non ha certo rinnovato la speranza di “abolire” lo Stato d’Israele. Se non ora, anche fra dieci, o venti anni. L’importante è perseverare nella lotta armata ad oltranza, senza cedimenti politici, senza alcuna normalizzazione con il nemico. Dunque i razzi di Hamas a Gaza costituiscono una specie di “Iron Dome” palestinese, che serve a proteggere attività sediziose in Israele e in Cisgiordania. L’obiettivo è di appiccare focolai di rivolta dove possibile. In primo luogo nella Città vecchia di Gerusalemme, in particolare nella Spianata delle Moschee. Ovviamente anche in Cisgiordania, nella previsione che la lunga presidenza di Abu Mazen (16 anni) debba necessariamente concludersi presto o tardi, lasciando spazio alle nuove leve islamiche.
Hamas fomenta sedizione anche fra i beduni del Negev e nel nord di Israele, specialmente nelle località arabe dove è più forte il Movimento islamico (Frazione Nord) dello sceicco Raed Sallah. Nel settore arabo di Israele, ha rivelato Bennett, ci sono 250 mila armi illegali. Per lo più sono nelle mani di organizzazioni di malavita. Ma Hamas ritiene che, in condizioni particolari, esse possano essere messe a disposizione anche dei nemici ideologici di Israele. Gli strateghi di Hamas vorrebbero riuscire a sincronizzare queste componenti potenziali di lotta per paralizzare un giorno Israele dall’interno. Già oggi in varie località viene scandito lo slogan: “Mohammed Deif, siamo al tuo servizio”. Deif è il comandante militare di Hamas.
Un quadro inquietante, dunque, che ha costretto le autorità israeliane ad adottare misure straordinarie di sicurezza. A quanto pare opereranno come un artificiere: cercheranno ossia di separare ogni possibile focolaio di violenza uno dall’altro. Dovranno circoscrivere cioè il malessere dei beduini del Negev e allontanarli dalle pulsioni religiose islamiche a Gerusalemme est, separare fisicamente la Cisgiordania dal territorio israeliano con un radicale rafforzamento della ormai obsoleta barriera di sicurezza, rafforzare le capacità dello Shin Bet nel tastare il polso fra gli arabi radicalizzati in territorio israeliano, prosciugare i vasti arsenali della malavita araba.
Sono sfide gigantesche: e lo sfaldamento ai primi di aprile del governo Bennett dopo un periodo di logoramento e di delegittimazione da parte della destra nazionalista di Netanyahu non faciliterà certo l’esito del confronto.