“Torneremo a casa solo quando ci sentiremo sicuri e gli ostaggi verranno restituiti”. Voci dal kibbutz Nir Yitzhak, al confine con Gaza

Israele

di Ilaria Myr
«Voglio che riportino il corpo di mio marito a casa. Io e i nostri figli abbiamo bisogno di una tomba su cui piangerlo e ricordarlo, e chiudere il cerchio di questi tragici fatti». Ela Chaimi, del kibbutz Nir Yitzhak, parla con la calma di chi soffre per un lutto tragico e violento, ma deve quotidianamente essere forte per continuare a crescere i propri figli: il marito Tal, il 7 ottobre 2023, quando i terroristi di Hamas sono entrati nel Kibbutz, situato a 3 km da Gaza, è subito uscito di casa per difendere la comunità con la squadra di sicurezza di cui faceva parte, ma non è mai tornato.

Per due mesi la famiglia e gli amici hanno pensato che fosse ostaggio a Gaza, e hanno sperato che potesse tornare un giorno a casa, vivo, come è successo ad altri 5 membri della comunità: 3 liberati durante gli accordi con Hamas a novembre (Clara Marman, Gabriella e Lia Lemberg) e 2 dall’esercito israeliano (Luis Har e Fernando Marman). Due mesi fa è arrivata la tragica notizia: Tal Chaimi era stato ucciso subito il 7 ottobre e trascinato a Gaza, insieme ai corpi di altri due compagni della squadra di sicurezza, Lior Rudaeff e Oren Goldin. Altri 5 membri sono invece già stati seppelliti nel cimitero del kibbutz: 3 della squadra di sicurezza (Yaron Shahar, Ofek Arazi e Boaz Avraham), i cui corpi sono stati ritrovati pochi giorni dopo, Ofir Melman, che era nella base militare di Sufà presa dai terroristi, e Ela Turgeman, che era andata al festival Nova ed è morta in ospedale in seguito alle ferite riportate.

 

Da allora Ela Chaimi, che intanto ha partorito il quarto figlio, spera di riavere il corpo del marito, per potergli dare una giusta e degna sepoltura, e avere lei e i figli un luogo dove ricordarlo e parlargli.

«Per i nostri figli è molto difficile – racconta a Mosaico da Eilat, dove sono sfollati tutti i membri del Kibbutz -: due gemelli hanno 10 anni, uno 7 e il neonato è nato dopo il 7 ottobre. Cosa sanno? Tutto: per qualche tempo mi sono chiesta se dovessi raccontare o omettere qualcosa, ma alla fine ho deciso di dire loro tutto quello che era successo, senza nascondere niente. Ora hanno solo bisogno di tornare a una qualche normalità, ai loro punti di riferimento, e alla loro casa».

Un difficile ritorno a casa

Il ritorno a casa, però, non si sa quando avverrà: con la guerra a Gaza e la situazione ancora ‘calda’, gli abitanti del kibbutz non sanno quando faranno ritorno, ma sicuramente sanno che in queste condizioni non vogliono farlo ora.

Naama Bahar

«In febbraio l’esercito aveva suggerito al governo che potevamo tornare nelle nostre case e che non c’era un problema di sicurezza – spiega a Mosaico Naama Bahar, 40 anni, nata e cresciuta nel kibbutz -. Ma per noi questo significava tornare a vivere in un contesto di guerra, e questo non lo vogliamo perché è pericoloso, anche perché il nostro kibbutz è a 3 km da Rafiah. L’esercito ha quindi fatto una riflessione specifica, decidendo che non è possibile tornare a Nir Yitzhak, e ha portato le sue considerazioni al governo, che deve però sedersi e prendere una decisione ad hoc. Ma da febbraio la questione è ancora sul tavolo».

Intanto il gruppo governativo Tkumà, che si occupa in maniera specifica delle comunità della Gaza Envelope (la zona abitata in territorio israeliano intorno a Gaza), ha deciso di prolungare il loro soggiorno nell’albergo a Eilat, inizialmente fino al 7 di luglio. «Ma ci stiamo avvicinando al 7 di luglio e vediamo che c’è ancora la guerra, e ancora in molti non si sentono di tornare a casa – continua Naama -. E poi per noi è molto importante rimanere insieme come comunità. Tkuma ha quindi proposto di allungare fino al 1° settembre, ma non è per noi una soluzione, perché non permette a chi ha figli che vanno a scuola di fare un anno di scuola in un contesto tranquillo. Stiamo quindi cercando di valutare quali altre opzioni abbiamo».

Da qui l’idea di pubblicare su Instagram un post in cui si chiede ospitalità temporanea. “La comunità di Nir Yitzhak, che è stata evacuata dalla propria casa, sta cercando una casa temporanea per il prossimo anno scolastico – dice il post -. Il Kibbutz Nir Yitzhak, situato a circa 3 km da Rafah, ha subito un duro colpo il 07/10. Stiamo cercando una soluzione temporanea per il prossimo anno scolastico per circa 40 famiglie. Siamo una comunità felice e unita e saremo felici di contribuire e integrarci in qualsiasi comunità che ci apra le porte. Saremo felici di realizzare il sogno della nostra comunità finché non potremo tornare a casa sani e salvi”.

Ad oggi sono arrivate alcune opzioni, che un gruppo interno al kibbutz sta vagliando, e poi metterà al voto fra tutti i membri.

Ma c’è qualcuno che ha già deciso che non tornerà più in kibbutz? «Nessuno ha ancora deciso nulla, c’è la guerra e i rapiti non sono tornati a casa, quindi è prematuro fare progetti – spiega Naama -. Certamente tutti vogliono tornare alla propria casa, ma se continueremo a essere zona di guerra probabilmente ci sarà gente che lascerà».

“L’attacco del 7 ottobre non ci ha sorpreso. Ma non essere protetti dallo Stato sì”

Il kibbutz Nir Yitzhak – che conta 580 membri, molti dei quali di origine argentina – è una di quelle tante comunità situate vicino alla striscia di Gaza. Affiliato al movimento sionista socialista Hashomer Hatzair, come quasi tutte le altre comunità intorno ha sempre creduto nella pace e in una possibile convivenza con i palestinesi. Chi scrive ci ha passato 6 mesi felici nel 1995: all’epoca – Yitzhak Rabin era ancora vivo – non c’era Hamas al governo, non c’erano missili lanciati da Gaza in continuazione e si viveva davvero in un’oasi di pace. Addirittura, la sottoscritta si è fatta portare a Rafiah per potere prender un autobus per andare in Egitto… Allora era possibile farlo.

I campi di fiori del kibbutz Nir Yitzhak

«In realtà non è più così da tempo – ci spiega Naama -. Sono quasi 20 anni che siamo in una situazione di sicurezza diversa da quella del passato, e i ragazzi che hanno dai 20 in giù non conoscono una realtà diversa di quella in cui i missili ci piovono in testa. Ognuno ovviamente ha le sue idee: io personalmente non ho mai pensato che dall’altra parte ci fosse un grande amore nei nostri confronti, e ho sempre creduto che chi voleva la pace fra i palestinesi lo facesse solo per non vivere in guerra e per avere più possibilità. Allo stesso tempo, non ho mai creduto che questo fosse possibile per persone chiuse in un territorio oppresso da una forza come Hamas e con i confini controllati da Israele. Quindi non mi ha stupito quello che è successo il 7 ottobre. Quello che invece ha stupito me e tutti quanti è vedere che lo Stato e l’esercito quel giorno non c’erano, dalle 6.30 del mattino per due giorni interi. Questa è stata la grande delusione: non di sapere che i palestinesi non ci amano, ma di sapere che non siamo difesi, mentre eravamo sicuri di esserlo».

 

Ora Naama, Ela e tutti i membri del kibbutz chiedono solo una cosa al governo: riportare a casa gli ostaggi, persone che sono state strappate dalla loro vita di cittadini. «Doveva essere fatto il giorno dopo, e poi si poteva pensare alla guerra! – dice Naama -. Ora ci troviamo in una situazione in cui c’è la guerra, non siamo in sicurezza e non abbiamo neanche con noi le persone che amiamo. Se voglio che ci siano le elezioni? Certo, penso che ci debbano essere perché il 7 ottobre è successo qualcosa di enorme, che ha creato una crisi di fiducia molto grande nel popolo israeliano. Se poi dalle urne uscirà di nuovo vincitore Netanyahu e la sua coalizione, lo accetteremo, siamo in democrazia. Ma è importante che ora ci sia data la possibilità di esprimere le nostre preferenze dopo quello che è successo».

I membri del Kibbutz Nir Yitzhak durante i festeggiamenti di Shavuot quest’anno