Trump, Gerusalemme e la leadership perduta degli USA

Israele

di Aldo Baquis (da Tel Aviv)

Perché l’Amministrazione Trump riconosce Gerusalemme capitale di Israele  e nel contempo brilla per la propria assenza in Siria?
Perché gli Usa si defilano, lasciando che la Russia si impossessi dello scenario mediorientale?
Una strategia contraddittoria e ambigua. E gli israeliani si chiedono perplessi: ma era davvero una mossa così urgente e necessaria?

 

«Il presidente Donald Trump ha iscritto per sempre il proprio nome fra i protagonisti della luminosa storia di Gerusalemme». Nell’apprendere del riconoscimento degli Stati Uniti della città quale capitale di Israele e del possibile trasferimento della loro ambasciata, Benyamin Netanyahu ha avuto la netta sensazione di vivere un momento storico. È tornato col pensiero alla Dichiarazione Balfour (1917), alla creazione dello Stato d’Israele (1948) e alla liberazione della Città Vecchia di Gerusalemme (1967). «Ho detto a Trump: amico mio, stai facendo la Storia – ha poi riferito il Premier -. Per noi è un momento esaltante: per la destra come per la sinistra, per i religiosi come per i laici. Questo è uno dei grandi momenti della storia del Sionismo». Trasportato dai propri sentimenti – e polemizzando a distanza con l’Unesco, sempre maldisposta verso Israele -, Netanyahu ha anche ribadito: «Qui, a Gerusalemme, c’era il Bet Hamigdash, il Tempio. Qui, i nostri Re regnarono. Qui, i nostri profeti predicarono. Questa è la nostra capitale storica».

Quand’anche ne avessero avuto l’intenzione, i cittadini e gli israeliani in generale si sono ben guardati dal dare libero sfogo alla propria soddisfazione. Nessun giubilo, nessuna pubblica esternazione. L’indicazione di tenere un atteggiamento low profile proveniva, del resto, direttamente dal governo. Non pareva il caso di irritare oltremodo i vicini arabi. E difatti, a parte il compiacimento dei politici di professione, non si sono registrate manifestazioni pubbliche di gioia, fatta eccezione per la proiezione notturna sulle mura della Città Vecchia dei vessilli congiunti di Israele e Stati Uniti. Perché, va sottolineato, che Gerusalemme sia la capitale dello Stato è da sette decenni – per l’israeliano della strada -, una verità lapalissiana. Cosa che peraltro sanno perfettamente – anche se, ipocritamente, non amano riconoscerlo ad alta voce – anche i politici stranieri in visita: colloqui e incontri ufficiali – col Presidente, col Premier o alla Knesset – non avvengono forse tutti a Gerusalemme? Per il trasferimento dell’ambasciata Usa, appare poi prematuro allertare i traslocatori. Secondo il segretario di Stato Rex Tillerson «ci vorranno almeno due-tre anni». Altri dirigenti hanno previsto tempi ancora più lunghi, sia per la progettazione dell’edificio, sia per la messa a punto dei necessari “piani di difesa” di security, sia per il trasferimento a Gerusalemme di circa mille diplomatici con le rispettive famiglie. Ci penserà dunque Trump, se sarà confermato per un secondo mandato, oppure il suo successore. Ottimista ad oltranza, Netanyahu ha previsto che altri Paesi decideranno di emulare gli Usa (finora, a ruota, la Repubblica Ceca, le Filippine, il Ghana, la Tanzania, ndr). Ma l’israeliano medio, pur lusingato dalla calda amicizia manifestata da Trump, è giunto alla conclusione che essa, nella sostanza, non faccia grande differenza rispetto al passato.

 

Lo scopo? Uno scossone allo stallo negoziale

Trump, a quanto parrebbe, avrebbe concepito il riconoscimento di Gerusalemme alla stregua di un elettro-shock per scuotere palestinesi e mondo arabo da torpore e pseudo-pacifismo, nonché per spronarli a un accordo reale ed epocale – a cui, pare, Trump starebbe lavorando assieme con Paesi sunniti moderati, segnatamente l’Arabia Saudita -. Una mossa tattica che consisterebbe nel rimescolare le carte, nello spiazzare i player della partita mediorientale. Nella sua dichiarazione pubblica ha infatti rilevato che una volta che israeliani e palestinesi giungessero a un accordo, Gerusalemme potrebbe fungere da capitale per i rispettivi Stati. Ecco perché, secondo molti osservatori, non si tratterebbe solo di imporre la volontà degli Stati Uniti sui palestinesi. Non a caso, Trump ha invitato il presidente Abu Mazen a Washington e ha avvertito Netanyahu di tenersi pronto a rispondere con concessioni significative alla sua dichiarazione su Gerusalemme.

E di fatto, se cercava di smuovere le acque, Trump ci è certamente riuscito. Ma probabilmente non nella direzione sperata. Perché nei Territori si sono subito moltiplicate le manifestazioni popolari di protesta e da Gaza sono ripresi i lanci di razzi verso Israele. Dal canto suo, Abu Mazen, invece di adottare una linea più soft e ricettiva, avvicinandosi alle posizioni dei Paesi sunniti moderati per agire di concerto e farsi meglio accompagnare verso un accordo con Israele, ha scelto di schierarsi accanto ai Paesi più oltranzisti e rumorosi, Turchia e Iran (e la foto scattata al vertice di emergenza della Organizzazione dei Paesi islamici la dice lunga sulle posizioni di Abu Mazen). Il Premier dell’ANP ha anche avvertito gli Usa che il loro ruolo di mediatori verrà respinto, da oggi in avanti, e che i rappresentanti americani non saranno più graditi a Ramallah. In un emporio di Gerico è addirittura comparso un cartello che ben rifletteva gli umori popolari: «Ingresso vietato – era scritto – a cani e ad americani».

E non si può far finta di ignorare il fatto che le parole di Trump abbiano causato un fremito di ribellione nelle moschee della Regione, suscitando la medesima indignazione fra i sunniti e sciiti, finalmente d’accordo su qualcosa… e la storia recente ci ha insegnato che trascurare la piazza araba non conviene mai.
Gerusalemme, com’è noto, è terreno minato, e mosse incaute possono provocare eruzioni inaspettate di violenza. Ben lo capì lo stesso Netanyahu in due occasioni. Nel 1996, quando inaugurò un tunnel alle pendici del Muro del Pianto che innescò duri scontri armati con i palestinesi in cui rimasero uccise decine di persone, fra cui 17 militari israeliani. E ancora, nel luglio 2017, quando l’installazione di varchi elettronici agli ingressi della Spianata delle Moschee – nella comprensibile preoccupazione di prevenire attentati terroristici – scatenò un’insurrezione della popolazione araba a Gerusalemme est. In entrambi i casi si trattava di mosse perfettamente legittime agli occhi degli israeliani. Ma entrambe furono adottate a sorpresa, e la reazione islamica fu esasperata.
All’indomani della dichiarazione di Trump, gli israeliani si si ritrovano così costretti a misurarsi con un inasprimento del conflitto con i palestinesi. Finendo per domandarsi se la molto apprezzata amicizia del Presidente degli Stati Uniti non sarebbe stata forse meglio spesa sul concreto terreno di accordi reali che non piuttosto nella sfera dei gesti dal clamore storico e simbolico. «Una battaglia molto più autorevole e seria – ha fatto notare Uzi Arad, un ex Consigliere per la sicurezza nazionale di Netanyahu – è in corso oggi, in questi stessi giorni, in Siria. Là, noi cerchiamo di allontanare un pericolo concreto: ovvero che le linee degli iraniani e dei loro alleati non si avvicinino troppo ai nostri confini e che sia garantita una distanza di sicurezza. E, a quanto pare, in quella zona e in quella situazione, gli Stati Uniti non esercitano la loro influenza». E brillano per la loro splendida assenza.
Ma allora perché questo doppio binario? Perché fare una mossa così azzardata come riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e poi abdicare al ruolo di super potenza e alla propria influenza sullo scacchiere mediorientale? Non c’è forse una contraddizione nella strategia americana adottata in quest’area del mondo?

Nei colloqui sul futuro assetto politico in Siria, a dare il tono oggi è la Russia. Il presidente Bashar Assad resterà a quanto pare in sella, puntellato dall’Iran e dagli Hezbollah. Israele ha chiesto che le forze sciite non possano avvicinarsi a meno di 40 chilometri dal Golan. Ha anche avvertito che non potrà tollerare la costruzione in Siria né in Libano di stabilimenti iraniani per la produzione di missili ad alta precisione. La domanda quindi sorge spontanea: gli Usa di Trump, che si affrettano a riconoscere Gerusalemme capitale indivisa, dove sono? Perché sembrano vieppiù scomparire dallo scenario geopolitico?

Perché non premono a sufficienza? Anzi, sono sempre più latitanti? E sia chiaro, gli States sembrano perdere terreno e influenza non solo in Siria, ma anche in Libano.
Non a caso, l’esercito nazionale libanese viene rifornito e supportato da approvvigionamenti provenienti da Paesi occidentali, nel tentativo di rafforzare le istituzioni di Beirut. Nel sud del Libano, il compito dell’esercito regolare sarebbe quello di contrastare le attività dei guerriglieri Hezbollah, ma al suo interno l’influenza degli ufficiali sciiti è in ascesa al punto che (secondo il ministro della difesa Avigdor Lieberman), l’esercito nazionale libanese dipende in maniera crescente proprio da Hezbollah, e indirettamente dall’Iran.
Dove sono gli Stati Uniti in tutto questo? Appaiono quantomeno distratti. Similmente, perdono influenza anche in Egitto dove è tornato a profilarsi un intervento russo. In una clamorosa visita di Vladimir Putin al Cairo (inizio dicembre 2017), è stato discusso il progetto per la costruzione di una centrale nucleare russa a fini pacifici.
Conclusione: con la sconfitta del Califfato in Siria, i russi espandono la loro influenza, l’Iran pure, e Washington si defila. «Messi su due piatti della bilancia – ha realisticamente concluso Uzi Arad, l’ex Consigliere per la sicurezza di Netanyahu – il riconoscimento di Gerusalemme come capitale da un lato, e dall’altro il remissivo disimpegno statunitense in Siria e nella Regione, sembrano due strategie contraddittorie. Insomma, non è affatto detto, in definitiva, che la politica di Trump giochi a nostro favore».