di Yoram Ortona
Dopo il pogrom del 7 ottobre 2023 in Israele, compiuto dall’organizzazione terroristica palestinese Hamas, sono andato a Tel Aviv nel mese di novembre, deciso a fare qualcosa per quel paese. La guerra iniziata da Gaza con centinaia di missili, a cui Israele ha dovuto rispondere per liberare gli ostaggi e annientare Hamas, ha innescato anche un’altra guerra: quella mediatica. Questa si è riversata come uno tsunami nelle società occidentali, incluso il nostro paese, diffondendo odio contro Israele e gli ebrei con una violenza mai vista dai tempi della Shoah. La disinformazione si è propagata su ogni mezzo di comunicazione: dalle televisioni ai giornali, dalle radio ai social media, questi ultimi in particolare diventati veicoli di odio brutale e incontrollato. Ogni ebreo è stato trasformato in bersaglio, nonostante le vittime dirette del massacro fossero stati gli oltre 1200 israeliani uccisi, violentati, bruciati e decapitati, e i 251 ostaggi rapiti da Hamas.
Rientrando in Italia nel dicembre 2023, trovo Milano, città gemellata con Tel Aviv, segnata da manifestazioni cariche di slogan cruenti. Questa atmosfera mi riporta alla mente i ricordi di Tripoli, quando affrontai da solo episodi di odio all’età di quasi 14 anni. Non potendo più tollerare questa situazione, decido di tornare in Israele per offrire il mio supporto attraverso il volontariato. Metà della mia famiglia vive a Tel Aviv, e questo legame mi spinge ancora di più verso questa scelta.
Grazie a un’attenta ricerca, entro in contatto con Sarel, un’organizzazione nata nel 1982 che offre ai volontari l’opportunità di lavorare nelle basi dell’IDF svolgendo attività di supporto non militare, come l’imballaggio di forniture mediche, la manutenzione delle basi e il controllo delle attrezzature.
Fondata dal Dott. Aharon Davidi, l’organizzazione ha accolto oltre 240.000 volontari da tutto il mondo, con circa 40.000 partecipanti nel 2023 dopo il pogrom. Nei mesi di marzo, luglio e novembre 2024, trascorro settimane intere con volontari provenienti da diverse nazioni, dagli Usa, Canada, Australia, Gran Bretagna, Francia, Belgio, e anche Germania, Repubblica Ceca e Ungheria, tutti accomunati dal desiderio di aiutare Israele in un momento così critico per la sua esistenza, ebrei e non ebrei, giovani trentenni e anziani ultra settantenni.
Un viaggio impegnativo ma profondamente appagante
Le difficoltà di raggiungere un paese in guerra non mancano: voli cancellati e scali multipli complicano il mio percorso, che mi costringono a dormire negli aeroporti di Zurigo, Monaco di Baviera e Venezia Marco Polo, ma ogni volta che atterro all’aeroporto Ben Gurion mi sento più sereno. Nelle diverse basi, situate sia nel nord che nel sud e nel centro d’Israele, il lavoro include attività come la preparazione di kit medici, l’imballaggio di cibo, derrate alimentari, la manutenzione delle uniformi e dei materassi per i soldati al fronte.
Queste mansioni, seppur faticose, vengono svolte in un clima di collaborazione e umanità. Ogni giorno si inizia presto, con sveglie alle prime luci dell’alba, dopo la doccia e la barba, colazioni nella mensa comune e l’alza bandiera accompagnata dal canto dell’Ha Tikvà, momenti che toccano profondamente l’anima.
Per chi fa una scelta di questo tipo, deve sapere che bisogna avere un certo spirito di adattabilità, di perseveranza e anche un pizzico di coraggio, bisogna essere attrezzati per dormire sotto le tende con sacco a pelo, al freddo o al caldo, su letti a castello, in alcuni casi anche nelle barracks, con servizi igienici tipo camping.
La routine quotidiana comprende ore di lavoro nelle varie warehouses (magazzini), con pause per il caffè e conversazioni che creano legami tra volontari di ogni età e cultura. Alla fine di una settimana, durante la quale vengono imballate oltre 10.000 scatole per circa 40.000 soldati, torno a Tel Aviv soddisfatto e con il cuore più leggero. Lo Shabbat lo dedico ai miei nipotini, ma la domenica molto presto alle 6.00 del mattino sono già pronto a ricominciare in una nuova base.
Un’esperienza di solidarietà e resilienza
Le serate sono arricchite da incontri organizzati da ufficiali e madrichot, che favoriscono riflessioni sulla cultura, l’identità e le condizioni di Israele. Anche durante momenti critici, come il suono delle sirene di allarme, causa lancio di droni o di missili, la corsa verso i bomber-shelters, la calma e la solidarietà tra volontari sono tangibili. Ricordo le serate e le notti passate il mese scorso nella base in cui mi trovavo: il costante rombo degli F-35 e F-16 che decollano per missioni nel nord del paese mi colpisce profondamente. Quei suoni, pur spaventosi e assordanti, trasmettono la determinazione di un popolo a difendere la propria terra, per cercare di far ritornare i propri cittadini nel nord e nel sud del paese, e per riportare a casa gli ostaggi che si trovano ancora a Gaza.
Questa esperienza è, come ebreo e sionista, la più significativa della mia vita, un atto di solidarietà per una causa giusta.
Come disse Elie Wiesel: “Non potrei vivere senza Israele.” Anch’io non potrei vivere senza Israele.
Am Israel Chai!