di Aldo Baquis
Per alcuni si è trattato di un unicum nella storia d’Israele, l’uomo qualunque che si sveglia una mattina dicendo basta, la mia voce non sarà più qualunquemente silenziosa. Per altri si è trattato di un effetto domino sulla scia dei moti di piazza nei Paesi arabi confinanti. Di fatto Israele è oggi un Paese diverso, dopo le manifestazioni dello scorso luglio-agosto, in cui centinaia di migliaia di persone si sono riversate nelle piazze per intimare a gran voce al governo di Benyamin Netanyahu di cambiare rotta: occorre disfarsi -hanno affermato-, del liberismo economico estremo, che ha impoverito interi strati sociali per dar vita a un “New Deal” fondato su un sistema di “giustizia sociale’’. Alla ribalta si è affacciato “un israeliano nuovo’’, ha annunciato alle folle di Tel Aviv Yitzik Shmuli, uno degli animatori della protesta, leader del movimento degli studenti universitari. “È un israeliano che ha abbandonato l’atteggiamento passivo, che lotta per i propri diritti’’. Un nuovo interlocutore politico, che vuole dire la sua nelle grandi scelte del Paese, al fianco del governo, dei partiti, dell’associazione degli industriali e della centrale sindacale Histadrut.
Il vento di protesta ha coinvolto ampi strati sociali, contagiando anche le città periferiche e i quartieri proletari che in passato erano stati i tradizionali sostenitori del Likud. Lo slogan centrale: “Il popolo esige giustizia sociale”, era stato tradotto dall’arabo. Era lo stesso invocato dai dimostranti di Piazza Tahrir al Cairo. Ma fra l’ammirazione generale, le dimostrazioni in Israele si sono svolte senza episodi di violenza. Una prova di grande maturità, per la società israeliana.
È stata un’estate di lotta sociale senza precedenti nella storia del Paese, concordano un po’ tutti, e adesso la protesta è a un bivio. Il movimento si chiede se sia preferibile mantenere un atteggiamento di contestazione permanente contro il governo, oppure verificare se effettivamente ci sia la volontà di accogliere le istanze popolari.
Di fatto, a settembre, nel Rothschild Boulevard, il viale alberato di Tel Aviv dove a luglio gli indignados hanno piantato le prime tende del sit-in di protesta, i seguaci di Shmuli hanno sgomberato il terreno, convinti che la stagione delle mobilitazioni di piazza si sia conclusa. Altri militanti hanno deciso invece di restare: non hanno infatti alcuna fiducia nella Commissione Tajtenberg, incaricata da Netanyahu di elaborare entro la fine di settembre proposte concrete di riforma. E lavorano adesso a una piattaforma concepita da due luminari della sinistra radicale (i professori Yossi Yona e Avia Spivak), assistiti da un team di un centinaio di esperti in vari campi. “Manterremo comunque una pressione costante sul governo”, promettono.
Ma facciamo il punto. In origine la protesta era stata innescata dal caro-affitti, e dall’estrema difficoltà per le giovani coppie di acquistare un primo appartamento. Poi si è estesa alla questione dei prezzi troppo esosi imposti dalle grandi reti commerciali e ai costi proibitivi dell’istruzione, fin dalla più tenera età. Quindi, almeno dalla corrente radicale, è arrivata la spallata, e critiche durissime, alla distribuzione della ricchezza in Israele: in particolare alla sua attuale concentrazione in una cerchia molto ristretta di “tycoon” locali. Nel mondo Occidentale, Israele è il Paese dove oggi si manifesta il maggior il divario sociale fra le classi sociali. Netanyahu è disposto in linea di massima a ridurre la concentrazione della ricchezza. Ha già fatto sapere che accoglierà le proposte che gli saranno sottoposte dalla Commissione Tajtenberg, senza però provocare scompensi nell’economia del Paese che ha superato con buoni voti la crisi economica mondiale. Ma il bilancio statale del 2012 è già stato approvato e sigillato. Novità strutturali, se ci saranno, rischiano dunque di slittare al 2013. Da qui lo scetticismo dell’ala radicale del movimento di protesta, espressa dall’attivista Dafni Leef. Intanto, due mesi di agitazione hanno già dato risultati tangibili. Ad agosto il governo si è visto costretto ad abbassare il prezzo della benzina, quindi le reti dei supermarket hanno ingaggiato fra di loro una lotta serrata a colpi di sconti. Il “nuovo israeliano’’ comincia ad avvertire di essere divenuto un protagonista e vuole sedersi ora al tavolo più importante: quello dove si influenzeranno i prezzi dell’edilizia popolare, le sovvenzioni statali all’istruzione, la riduzione delle imposte indirette e la tassazione dei capitali.
Ossia vuole entrare nella stanza dei bottoni dove si genera la ricchezza nazionale, affinché venga poi ridistribuita in maniera equa. Molti commentatori notano con soddisfazione che, mentre l’autunno è alle porte, in Israele sta prendendo piede una nuova cultura politica, che potrebbe avere effetti di lungo termine.
La pasionaria e gli indignados
Intervista a Stav Shafir, la leader “gingit” del movimento di protesta
Con la riconoscibilissima chioma rossa, “gingit” in ebraico, la pur mingherlina Stav Shafir si è imposta all’ attenzione generale fin dalle prime mosse della protesta sociale. Giornalista, cresciuta nella redazione del settimanale delle Forze Armate Ba-Mahanè e impiegata ora in un sito web di life-style, Shafir fin dai primi giorni di lotta si è trovata costretta a misurarsi per strada e negli studi televisivi con i pescecani della politica nazionale. Ma la studentessa di filosofia e di storia della scienza, 26 anni, non si è mai lasciata intimidire, e ha enunciato le sue ragioni fino in fondo. Dopo due mesi di lotta si è concessa qualche momento di respiro e ha illustrato al Bollettino le finalità della protesta. La pressione sul governo, avverte, è destinata a crescere e proseguire nel tempo. La prossima sfida sarà uno sciopero delle tasse.
Come sei stata trascinata fra gli “indignados”?
Già un anno fa il mio compagno Yonathan ed io trovavamo insopportabile il caro-affitti a Tel Aviv e meditavamo di protestare piantando tende in centro città. Il seme dunque era già là. Quando ai primi di luglio Dafni Leef ha aperto su Facebook una pagina di protesta ci siamo ritrovati nel suo salotto, vicino a Piazza Dizengoff. Una settimana dopo le prime tende di protesta sarebbero comparse sul Rothschild Boulevard. Ma eravamo pochi. Ognuno di noi ha allora mandato raffiche di mail agli amici, perché venissero a sostenerci. Così il movimento ha preso quota.
Cosa vi dicevate da Dafni Leef, durante i preparativi?
In passato avevo preso parte ad altre lotte sociali. Ad esempio a favore di quanti chiedono in Israele asilo politico. Ma se il messaggio è complicato, solo un pubblico limitato è in grado di recepirlo. La nostra regola è stata: “Parlare in modo semplice”. La questione della casa, degli affitti, tutti la comprendono. La cosa più difficile era portare in piazza i ceti più bassi, sostenitori tradizionali del Likud.
Come siete passati dagli obiettivi immediati alle questioni più generali?
Con un approccio molto attivo. Dopo un primo intervento alla Knesset ho contattato tutte le organizzazioni sociali. Erano intanto venuti allo scoperto quelli che protestavano per il prezzo della benzina o del formaggio. C’erano i medici in sciopero negli ospedali. Abbiamo cercato di trovare un terreno comune per un malessere comune. A fine luglio siamo scesi in strada per quella che sarebbe stata poi chiamata la madre di tutte le manifestazioni.
Fu là che scandiste per la prima volta lo slogan: “Il popolo esige giustizia sociale”. Chi lo ha escogitato?
Sono stati i dimostranti di Piazza Tahrir, al Cairo. Abbiamo tradotto dall’arabo in ebraico. Peraltro c’erano molti che guardavano alle manifestazioni sociali nel mondo arabo. Anche le proteste degli “indignados” spagnoli ci hanno influenzato. Da loro abbiamo anche ricevuto messaggi di incoraggiamento. In definitiva il loro successo è stato inferiore al nostro.
Molti hanno espresso ammirazione per l’ordine in cui si sono svolte le manifestazioni. Come avete impedito che si verificassero violenze?
Si sono avuti casi ripetuti di persone che volevano ricorrere alla violenza, sia nel nostro campo tendato, sia nelle manifestazioni. Avevamo la sensazione che fossero infiltrati. Aggredivano anche noi, ci minacciavano. In definitiva, a neutralizzarli, è stata la massa dei dimostranti. Nel nostro campo c’era un attaccabrighe. Una notte tutti gli uomini lo hanno preso di peso e costretto ad andarsene. Poi è ritornato, ma era diventato meno aggressivo. In termini generali, è molto difficile affrontare la violenza con la non violenza.
Mezzo milione di israeliani in piazza. Ma come tradurre adesso la volontà politica in misure concrete?
Occorre esercitare una pressione permanente, anche economica. Gli studenti universitari minacciano di boicottare la Tnuva, un’azienda alimentare, per costringerla ad abbassare il prezzo dei formaggi e dei latticini. Ma questo è ancora poco. Stiamo studiando uno sciopero del pagamento delle imposte.
Pensi che Netanyahu prenderà misure restrittive nei confronti dei “tycoons” israeliani?
Certamente un provvedimento del genere sarebbe ben visto dalla base sociale del Likud. Il governo pensa ad una riduzione del bilancio della difesa di 2-3 miliardi di Shekel (un euro, 5 shekel). Ma è troppo poco. Noi stiamo elaborando una serie di proposte, grazie ad uno staff di 100 esperti guidati dai professori Yossi Yona ed Avia Spivak.
In che cosa consistono?
Radicale riesame del bilancio per il 2012, che il governo ritiene chiuso. Soluzioni immediate per quanti sono privi di una casa: ci sono edifici pubblici che vanno riattati e distribuiti. La società per l’edilizia popolare Amidar dovrà essere riorganizzata del tutto, guardando al modello dell’edilizia popolare in Gran Bretagna. Poi esigiamo istruzione gratuita, dai tre anni fino alla laurea. Ingenti investimenti nelle strutture sanitarie, nello staff medico. Equiparazione dei servizi fra il centro di Israele e le periferie. Per accrescere le entrate occorrerà appesantire le tasse sulle grandi società, sui capitali.
Eppure all’estero l’economia israeliana riceve buoni voti.
A livello macro è così. Perché tanta protesta, allora? Perché la gente non beneficia di quelle risorse. Io ad esempio provengo da una famiglia agiata, sto studiando per il Master, ho un lavoro a tempo pieno: eppure, a 26 anni, ancora non posso costruirmi un futuro. Quello che guadagno non basta alle mie necessità immediate. Come potrei pensare a mettere su famiglia, a pensare ad altri?
Malgrado i toni radicali, in verità non avete polemizzato per i fondi statali agli ortodossi o ai coloni. A cosa è dovuta questa prudenza? Al timore di perdere consensi?
Ma niente affatto. Quello che è avvenuto in questi mesi è un cambiamento nel linguaggio politico in Israele. È finita un’epoca, quella dell’apatia sociale. In passato avevamo gruppi che si azzannavano l’un l’altro: coloni, ortodossi, laici di Tel Aviv, e via dicendo. Adesso c’è un nuovo approccio: ciò che conta sono le necessità del singolo. La società deve badare a tutti, anche agli ortodossi, anche agli arabi, anche ai coloni rimossi da Gaza che ancora non hanno basi solide. Gli slogan del passato, non funzionano. Va notato che la società israeliana è in uno stato di post trauma, anche in seguito agli attentati palestinesi. Io stessa provo ancora timore a salire sugli autobus. Il nostro obiettivo è dare vita ad una società normale, progressista, davvero moderna. È come se fossimo tutti in terapia…
Qual è stato finora il vostro maggior successo?
Aver creato un nuovo linguaggio politico.
E dal tuo punto di vista?
L’aver stretto contatti con i ceti più poveri. Ad esempio con i campi tendati di Jessy Cohen a Holon, dove si trovano casi sociali davvero dolorosi. Li abbiamo aiutati a costruirsi baracche di legno. Poi la polizia le ha sgomberate, con forza eccessiva, arrestando gli uomini. Proprio a Jessy Cohen, in un posto dove il Likud va forte, un uomo mi ha chiesto: “Ma voi, aiutate anche gli arabi?”. Credevo che avesse un tono minaccioso, ma lui mi ha detto: “Fate bene, perché anche loro soffrono per la penuria di case”. Dall’emozione, mi tremavano le gambe.