Voto a settembre: Netanyahu all’attacco delle “vecchie élites”

Israele

di Aldo Baquis, da tel Aviv

Rischia l’incriminazione. È stato messo al tappeto dallo scontro fra Avigdor Lieberman e gli haredim di Gur. Ha scatenato i malumori americani rinunciando a formare il governo.
Ce la farà ancora Bibi? Nel frattempo, nella Destra, cresce una nuova generazione destinata a plasmare una cultura politica in dirompente rottura col passato del Paese. E che ne sarà dell’“Accordo del secolo”, il piano di Trump per il Medioriente? Rimandato alle calende greche

Pur nota per la sua grande e invidiabile vitalità, questa volta la democrazia israeliana si è fatta lo sgambetto da sola. Di conseguenza nel 2019 gli elettori dovranno recarsi due volte alle urne, cosa senza precedenti dal 1948. «Siamo diventati un’altra Italia», ha commentato costernato il premier Benyamin Netanyahu.
Le politiche del 9 aprile avevano peraltro assegnato una vittoria netta al blocco delle Destre: 65 deputati su 120, 35 dei quali al Likud. Eppure a fine maggio Netanyahu ha constatato di non essere in grado di ottenere alla Knesset una maggioranza per la nuova coalizione di governo. Così la legislatura appena aperta è stata velocemente disciolta e nuove elezioni sono state indette per il 17 settembre. In apparenza un voto all’insegna dello sbadiglio: i partiti in lizza saranno grosso modo gli stessi, i candidati ancora quelli di aprile. Le speranze che la situazione si sblocchi non sono elevate, anche se nella politica israeliana tre mesi sono una eternità.
Da Washington il presidente Donald Trump – che aveva puntato i suoi gettoni sulla rielezione di Netanyahu e su una rapida composizione di un nuovo governo del Likud – ha espresso disappunto: «Una situazione davvero ridicola – ha twittato. – Non siamo soddisfatti». C’era infatti da presentare nei prossimi mesi il suo “Accordo del secolo” per il Medioriente. Ora invece l’estate è bruciata e poi ci si avvicinerà al 2020, l’anno delle nuove presidenziali in Usa in cui la sua attenzione sarà altrove. La diplomazia Usa rischia un grave scacco. Ma per colpa di chi?
Probabilmente i suoi consiglieri non hanno nemmeno tentato di spiegare a Trump che il rabbino degli haredim ortodossi di Gur, Yaakov Aryeh Alter (80 anni), aveva irrigidito a sorpresa le proprie posizioni trascinandosi dietro – nella sua abissale opposizione all’arruolamento nell’esercito di ragazzi di yeshivà – i 16 deputati ortodossi della Knesset. Né gli avranno narrato dell’ex ministro della difesa Avigdor Lieberman che, trovandosi alla guida di un partito che ha perso quota dopo essere stato coinvolto in vicende di corruzione, necessitava un nuovo cavallo di battaglia. Quale idea migliore per Lieberman, molto popolare fra gli ebrei immigrati dalla Russia, che non vendersi come il paladino dell’Israele laico, insofferente di un asserito strapotere degli ortodossi? Stretto fra i due litiganti, Netanyahu ha guardato il proprio pallottoliere e ha visto che in definitiva poteva contare solo su 60 dei 65 deputati che avevano consigliato al presidente di affidargli l’incarico di formare il governo. Un’amarezza tanto più bruciante alla luce della finzione in virtù della quale, anche con la legge voluta da Lieberman, quasi tutti gli studenti di yeshivà sarebbero comunque esentati automaticamente dalla leva.

I grandi temi nazionali

In realtà, la democrazia israeliana attraversa un periodo di appiattimento e di pochezza di idee. Nella prima campagna elettorale quasi non si era sentito parlare dei grandi temi nazionali, fra cui le eventuali soluzioni del conflitto con i palestinesi, la massiccia influenza dei grandi tycoon nelle maggiori scelte economiche del Paese e nella proprietà dei mezzi di comunicazione, e la integrazione nel mercato del lavoro di due importanti minoranze – la comunità araba e quella ortodossa – dove si hanno elevati tassi di povertà. I partiti avevano allora preferito scambiarsi piuttosto pepate contumelie di carattere personale, per la felicità degli appassionati di Facebook e di Twitter.
Quei temi sono rimasti poi in un limbo anche quando Netanyahu ha cercato di elaborare una piattaforma per il nuovo governo. Ben sapendo che egli rischia l’incriminazione per corruzione, frode e abuso d’ufficio, i partiti minori gli hanno detto che avrebbero appoggiato varie idee per garantirgli l’immunità (ad esempio riducendo le prerogative della Corte Suprema), ma in cambio di importanti incarichi ministeriali e di lauti finanziamenti alle loro istituzioni. Accettare i loro condizionamenti avrebbe appesantito una situazione economica in questo momento non molto felice. Ma in definitiva a rimandare il Paese a settembre è stata la messinscena del duello fra Lieberman e il rabbino di Gur.
Malgrado la delusione, attorno a Netanyahu vi è la sensazione che – una volta neutralizzato Lieberman – il blocco di Destra riuscirà ad aggiudicarsi anche le elezioni di settembre. Israele – c’è chi afferma nell’entourage del primo ministro – attraversa un ricambio storico, epocale, nelle sue élites. Quella più antica, ancor legata agli ideali dei padri della patria e reputata atrofizzata, viene gradualmente sostituita da una nuova élite, espressione di una cultura differente, che solo adesso percepisce le proprie potenzialità. Malgrado il Likud abbia ottenuto la sua prima vittoria elettorale nel 1977 con Menachem Begin – viene osservato in ambienti vicini al premier -,solo negli ultimi anni il partito comincia a comprendere che nei decenni passati aveva governato in superficie, ma non in profondità. Non aveva interiorizzato – questa una delle spiegazioni offerte – “la legge del palmo della mano”. «Non basta – ha illustrato – il solo pollice, ossia il governo e la Knesset. Occorre ricorrere anche alle altre dita. Vale a dire? Ossia la Corte Suprema, i mezzi di comunicazione di massa, il mondo della cultura, i campus universitari, e così via». Lungo quelle direttive così aggiornate ha agito il governo Netanyahu negli anni 2015-2019.

Formare una nuova generazione

Ma come mai sono occorsi decenni per maturare queste convinzioni? Per spiegarlo, c’è chi cerca ispirazione nella Bibbia. «Quando uscirono dall’Egitto, – così procede il ragionamento – gli israeliti erano una massa di schiavi, per niente abituati alla libertà e alla responsabilità. La geografia di allora era come quella di oggi. Per raggiungere le terre di Canaan le loro carovane, passando sul litorale del Sinai settentrionale, avrebbero dovuto impiegare settimane, mesi al massimo. Come mai vagarono allora nel deserto per 40 anni? Perché – qui una spiegazione abbastanza diffusa – la vecchia generazione di ex schiavi non era in grado di affrontare i giganti e le città fortificate che avevano di fronte. Occorreva che prendesse forma una nuova generazione». Qui dalla Storia remota si torna ai nostri giorni. Nei primi decenni la destra israeliana (Begin, Shamir, Sharon) si sentiva subalterna all’establishment laburista ashkenazita: in politica, nell’economia, nella cultura, nei tribunali, nell’accademia.

Adesso Netanyahu avverte che quel senso di inferiorità non esiste più e che la Destra rivendica a sé il diritto non solo di formare un governo, ma – in forma più estesa – di plasmare a sua immagine una nuova cultura politica.
Il 17 settembre Israele tornerà al voto. Secondo alcuni analisti, il 29 maggio – il giorno in cui Netanyahu si è visto costretto alla Knesset a sciogliere in anticipo la legislatura – sarà ricordato come una data storica perché a loro avviso indica l’inizio del suo declino politico e preannuncia la sua uscita di scena. Eppure Netanyahu gode ancora di un forte sostegno personale e potrebbe varcare anche allora per primo il traguardo. Ma subito dopo è stata fissata per lui una audizione dal Consigliere legale del governo Avichai Mandelblit che rischia di rivelarsi di importanza critica per una sua incriminazione.
Secondo i suoi detrattori, Netanyahu in questi mesi sta disperatamente piegando in tutti i modi il sistema politico e gli apparati della magistratura «per sfuggire alle grinfie della giustizia». «Ci ricorda un po’ Berlusconi», ha osservato un analista di Ha’aretz. Secondo i suoi estimatori, sta invece combattendo una battaglia eroica per sconfiggere le “vecchie élites” e per portare alla ribalta nuovi settori della società israeliana: un cocktail di nazionalisti, di ebrei tradizionalisti, di ortodossi e di “coloni”.
Quella del 2019 sarà prevedibilmente un’estate di fuoco. La posta in gioco non è solo il nuovo governo, ma la stessa fisionomia politica del Paese nel prossimo decennio.